Sei tornato, amore mio La signora Vanna L'avrei intagliata La laurea
O cardo triste La sua gran donna Quel giorno a raccogliere funghi
il the alla menta Sapore di città E' Natale in Tir per via Oberdan
Vita da cane C'era una volta l'Aifrane il coniglietto Buon natale, Geraldo
L'archivio dei giorni Perché Flavia Matilde la pazza Un'avventura fantastica

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Sei tornato, amore mio
Racconto di Nunzio Cocivera

"Una rosa bianca, amore mio, l'ho comprata per te. Sai, Pasquale, sono passati 50 lunghi anni dal giorno in cui, in quel campo di frumento, ci promettemmo amore e ci sfiorammo il corpo con carezze audaci; poi io fermai la tua mano, ti negai il mio corpo che fremeva più del tuo; eravamo giovani, forti e belli, innamorati come due colombi.
Tu eri splendido con la divisa da carabiniere e ti sei fatto ammirare da tutti; scendendo in paese le mie amiche ti guardavano con ammirazione, piacevi a tutte sai!
Ma eri mio, il mio amore segreto.
Poi arrivò l'addio, dovevi partire per Roma, per far carriera, per noi, per te, per la tua famiglia, con la promessa però che saresti tornato per sposarmi, che avresti riempito di rose bianche la nostra Chiesa e che mi avresti preso per la vita davanti a Dio.
Oh povero giovane amore mio!
Ci siamo dati un bacio titubanti, poi quell'addio straziante tra le lacrime e i nodi in gola."

Due grossi lacrimoni scendono sulle gote rugate dagli anni della signora Carmela, per un attimo non riesce a proseguire, si soffia il naso, si asciuga gli occhi, quegli occhi azzurri sbiaditi dagli anni.

"Anche quel giorno sai piangevo e tu mi dicesti: "No, amore mio, non voglio che i tuoi occhi di cielo piangano, nei tuoi occhi c'è il cielo di primavera e vita e gioia!"
Anche allora finiva la primavera e sei partito per non tornare più!
Sei tornato solo ora, dopo 50 lunghi anni, sei stato lontano da me ed io ormai sono vecchia; se le lacrime lasciassero il segno dovrei avere due solchi sul viso, tanto ti ho pianto, forse anche più di tua madre, povera donna, seduta sotto il pergolato; ricordo che piangeva quando mi raccontò che eri prigioniero in Grecia ed io piansi con lei, mi strinse a sé, forse capì, poi mi disse: vedrai che tornerà, ci sono tante persone che lo amano e che pregano per lui!
Oh Pasquale, ho odiato la guerra che ci separò e tutte le guerre che da quel 1940 separarono altri come noi; tua madre e tuo padre morirono di dolore quando quel lontano giorno arrivò la notizia che purtroppo il soldato Pasquale Sottile era morto in Germania in un campo di concentramento.
Io, sai, volevo morire con te; salii su quel muro del mulino, guardai giù il torrente, scendeva un filo d'acqua, ma vigliaccamente scesi e tornai in lacrime a casa; passarono gli anni e sposai Filippo, povero Filippo, ebbe il mio corpo ma non ebbe mai il mio cuore; lo ingannai perché il mio cuore fu solo tuo, lo ingannai vigliaccamente, non so se lo capì mai che non l'amavo.
Ma ora sei tornato amore mio, la tua bara coperta dal tricolore è stata consegnata ai tuoi fratelli, anche i tuoi genitori sono ormai morti ed io ho portato un garofano a Filippo, mentre questa rosa bianca è per te, mio unico amore, sognato, negato..."

La signora Carmela si asciuga le lacrime e piano piano barcollante torna verso casa col suo amore segreto.
Il cielo è cupo sopra di lei, tuoni e fulmini si avvicinano minacciando tempesta, mentre dentro di lei si dibatte un uragano di ricordi e dolori ancora più forte della pioggia che verrà.

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La signora Vanna

Leggevo Astra pensando che se almeno il 50 percento delle previsioni sul mio segno si fossero avverate, nel 2000 sarei stato al centro di avvenimenti bellissimi e avrei avuto qualche Euro in più in banca. Fuori pioveva, le isole Eolie si vedevano a un tiro di schioppo e i vecchi dicevano che quando erano così vicine, il maltempo sarebbe durato alcuni giorni, forse settimane.
Il mio lavoro non era certo un lavoro d'ufficio e era auspicabile che avrei fatto tanto pane di casa.
Il pane di casa, se fatto con grano duro, è molto gustoso e anche dopo molti giorni si mangia con gusto; ma quel "pane di casa" che usiamo noi, è un pane a volte duro. Per noi, dire pane di casa, significa stare a casa senza stipendio, né lavoro.
Per chi come me e compagni lavora fuori, è un handicap, il tempo sembra esporti in balia delle perturbazioni, il lavoro a "giornata" dipende dalle giornate effettive lavorate.
Ma non pensiamoci, quando si chiude una porta si apre un portone diceva mio nonno, non sempre era vero, ma a volte si avverava.
L'avevo letto e riletto, non sapevo cosa fare, finché suonò il campanello. Era lei, la signora Vanna, la salute in persona; 43 forse 44 Kg per 97 anni suonati, mai un acciacco, mai presa una pillola. L'unico disturbo che aveva erano i dolori, le artrosi, che curava con impacchi caldi fatti con una stoffa spessa di lana grossa, da lei stessa cucita, riscaldata sulla stufa a legna.
Così dolce e amabile che era "la zia Vanna" per tutti, forse ero l'unico a chiamarla signora Vanna, ma senza mai riuscire a spiegarmelo, io non ci riuscivo a chiamarla zia.
Come sempre, portava una manciata di fiori secchi, veniva a trovarci spesso ed io ero felice di sentirla parlare; anzi la esortavo a farlo, soprattutto dei periodi della sua gioventù, di quando per i paesani faceva la puttana in Argentina.
Rimasta vedova con tre figli, a 29 anni decise contro il parere di tutti, parenti, amici e conoscenti, di partire per l'Argentina.
Era rimasta senza marito, con tre figli e un pezzo di terra dentro la casa dei suoceri, dai quali veniva considerata come una serva senza libertà, né dignità; era umiliata e affamata.
I tempi erano tristi, ma i suoceri non pativano come tanti la fame, volevano però che lei e i suoi figli lo facessero e si privassero di tutto, così come non dovevano "sprecare nulla"; inoltre ritenevano che fosse lei la causa principale della morte del figlio.
I suoi genitori non erano in grado di prendersi a carico quattro bocche da sfamare, non potevano e non volevano.
‹‹Pazienza Vanna›› le disse sua madre, ‹‹sopporta, devi sopportare.››
E Vanna sopportò per un anno, per il bene dei figli. Poi ci fu Mariano.
Il cugino Mariano, era troppo spesso in casa, veniva e andava carico di formaggi, ricotte e attenzioni per lei e i suoi bambini, finché il suocero fu chiaro: ‹‹Devi sposarlo, se la passa bene e ti ha messo gli occhi addosso!››
Vanna non era certo ingenua, aveva intuito, capito, ma la cosa la faceva inorridire. Mai sarebbe stata di quell'uomo, era burbero, sboccato, volgare, sporco e vecchio almeno 50 anni o forse più, non voleva neanche saperlo; dopo essere stata felicemente amata dal marito, che era stato un vero angelo, non sarebbe stata di nessuno, tanto meno di quell'uomo.
Finché una sera il suocero l'aggredì e non c'erano santi che tenessero, lui si era impegnato con Mariano e poi era la soluzione migliore perché i suoi nipoti riavessero un padre.
Vanna fu volgare quella sera, alla fine di un batti e ribatti di ore, disse al suocero: ‹‹Se proprio vuoi che in questa casa, Mariano vada a letto con qualcuna, fallo provare a tua moglie. Io non sarò mai sua, tuo figlio si sarà rigirato nella tomba a sentirti parlare così.››
Poi prese i bambini e con pochi stracci, partì a notte fonda nel mese di Gennaio, in una sera di luna piena, verso casa dei suoi. Appena fuori di lì, baciò la terra umida e con un vento gelido, che tagliava la faccia come un rosaio, partì con i bambini che piangevano, anche lei lo faceva.
Affrontò circa tre chilometri quella notte, con il piccolino in braccio, trascinandosi dietro gli altri due e lottando contro quel vento.
Semi assiderati, arrivarono dai suoi che albeggiava. Suo padre era sull'uscio di casa, stava mettendosi gli stivali, appena li vide apparire, urlò alla moglie e corse loro incontro; prese da terra i suoi nipotini inzuppati e infreddoliti e li strinse a sé senza parlare. Sua madre uscì la testa, appena li vide urlò: ‹‹Pazza, pazza incosciente, cos'hai fatto?››
‹‹Sono tornata madre e per sempre!›› dopo un attimo di silenzio, tra il panico e la disapprovazione replicò: ‹‹Tu sei pazza davvero, non potete restare.››
Suo padre portò i nipoti dentro casa, poi disse alla moglie: ‹‹Ripulisci i tuoi nipoti e tua figlia, sfamali e mettili al caldo.››
‹‹Ma l'hai sentita? È tornata per restare!››
‹‹Cosi sia!››
‹‹Tu sei più pazzo di lei, come faremo?››
‹‹Dio provvederà, noi col suo aiuto provvederemo.››
Suo padre non ci provò mai a rimproverarla o a rinfacciarle qualcosa, ma la madre in quei mesi, non faceva sempre che ripeterle che lei, per il bene dei figli, doveva sacrificarsi a Mariano.
Non poteva certo dire a sua madre di coricarsi lei con Mariano, ma era una tortura psicologica continua, oltre che a volte, un problema effettivo, quello di sfamare degnamente i bambini. Doveva trovare una soluzione migliore, si spaccava la schiena lavorando e anche i suoi, ed era una lotta contro i mulini a vento, non c'era avvenire, lei doveva "vivere" con i suoi bimbi, non "sopravvivere"!
Alcuni parenti parlarono della terra promessa, emigrare in Argentina. Decise, doveva partire, avrebbe venduto quel terreno lasciatole dal marito, sarebbe partita contro il parere di tutti.
I parenti furono chiari con lei, con i suoceri, con i suoi, sarebbero stati solo compagni di viaggio, una volta laggiù chi si è visto si è visto.
Era veramente impazzita, una donna sola con tre bambini, cosa andava a fare verso l'ignoto? Ma lei parti. Con l'aiuto di Dio ce l'aveva fatta, era riuscita a crescere e a far sposare i suoi figli, due dei quali rimasti laggiù con la famiglia e solo una sposata con un paesano, era tornata in Sicilia, vivendo qui da anni.
Da anni lei, faceva la spola tra l'Argentina e la Sicilia, prendeva l'aereo come prendesse un pullman, senza paura né altro, a volte pensavo che sarebbe morta in volo.
Mi disse: ‹‹Mi serve un favore, pagando›› disse, ‹‹devo tornare in Argentina, parto sabato. Mi puoi portare all'aeroporto?››
‹‹Ma alla sua età, non ha paura a partire?›› dissi.
‹‹L'unica paura che ho›› disse ‹‹è quella di vedere morire i miei figli, mio figlio sta male, deve operarsi alla prostata; vado ad assisterlo.››
‹‹Non ha la moglie, i figli?››
‹‹Una moglie non ti può amare mai più di una madre.››
‹‹Ma prendere due aerei, uno a Catania, l'altro a Roma, alla sua età.››
‹‹Sai, a Catania mi aspetta un angelo, ormai sono anni che mi prende per mano.››
Durante il viaggio verso l'aeroporto, mi parlò meglio di quell'angelo. Era un hostess che la prendeva per mano e a Roma, la faceva salire sull'altro aereo portandola fino al suo posto.
‹‹Te la presenterò, vedrai con i tuoi occhi. Le ho telefonato, mi aspetta all'aeroporto.››
Sorpresa delle sorprese, le hostess erano due, due angeli belli, alti, la presero come fosse una nonna, felici di rivederla.
Mi presentò l'angelo, il suo nome era Apollonia. Quest'ultima mi confidò che si era ormai affezionata alla nonnina che viaggiava con loro ormai da anni.
‹‹Ha un gran coraggio›› disse.
‹‹Credi che la vedrò tornare?›› chiesi.
‹‹Se Dio vorrà! In questo andirivieni può morire anche in volo, ha già una certa età.››
‹‹Ma può anche arrivare a cento anni!››
La vidi salire la scaletta con i suoi passi lievi da gatta, appoggiata appena ad Apollonia, mi venne di pensare che l'angelo anziano, si appoggiava all'angelo giovane.
Tornavo verso casa, felice, avevo in tasca 500.000 £. La signora Vanna era generosa come un angelo, i favori li pagava bene ed io ero sereno, pensavo a quei due angeli in volo. E il tempo pioveva, pioveva.
Il pane di casa se verrà, sarà più morbido, grazie agli angeli.

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L'avrei intagliata

Con il passare degli anni l'unica cosa che lei ancora ammirava di me era il mio lavoro di intarsio e di intaglio.

Era a pochi passi da me e ammirava "l'ultima cena" che stavo intagliando su una tavola di ciliegio africano. Mi guardava con una certa ammirazione, ma non l'uomo bensì l'artista.

Erano trascorsi sette lunghi anni da quel dì nel quale mi scelse come sua vittima, ma almeno da quattro ci univa solo "il sesso", un sesso-amore che mi teneva legato a lei come prigioniero di un sentimento tra l'odio e l'amore.

Aveva un corpo scultoreo, trasudava sesso a vista d'occhio, sembrava dicesse "prendetemi". Ma non riuscivo ad allontanarla da me, ero vittima dei suoi tradimenti sfrontati e sfoggiati, vittima senza dignità, umiliato, esiliato e rimpatriato tra le sue cosce agognate; ero come schiavo, come burattino del quale lei muoveva i fili a suo piacimento.
A volte mi scioglievo in un pianto, quando mi diceva ti "pianto", e gli restavo accanto, perché l'amavo tanto!

I nostri discorsi erano ormai formali, solo dialoghi fatti di sì e di no e su argomenti occasionali.

"Sei bravo", mi disse, "quei personaggi sembra che parlino!"
Era sincera lo sapevo, l'unica cosa che amava ancora di me era il mio lavoro.
Spronato dal suoi approcci di dialogo e dei complimenti ricevuti, abbozzai un dialogo sull'argomento del momento e dissi: "certo che questa epidemia della mucca pazza sta buttando alle ortiche intere aziende, e i lavoratori del settore."
"Sei il solito ignorante" replicò lei , "il termine epidemia si può usare quando si parla di infezioni e patologie umane, per gli animali si usa il termine epizozia, ma tu sei il solito "ZOION" e se vuoi sapere cosa significa ti informo che vuol dire animale vivente, in pratica ciò che sei."

Giuro, l'avrei intagliata o meglio intarsiata, incastrando in lei un cuore più buono, una mente più umile e sentimenti come rispetto, affetto, amore, cose mai esistite dentro di lei.

A volte cresceva dentro me un'angoscia che mi buttava nella disillusione più nera perché vivevo con lei, prendendo i suoi scarti, i pochi attimi di sesso che mi donava; e quando lo faceva mi portava così in basso fino ad annullare l'uomo fisico e morale: in quei momenti aveva tutto di me, anima e corpo.
Perché mi faceva quell'effetto? Perché pur avendolo pensato e detto varie volte non avevo il coraggio di andare fino in fondo e di partire per chissà dove, basta che sia lontano da lei?

Mormorò ancora varie cose; dentro di me cresceva una strana rabbia, alzai il braccio con impeto e la colpii; nell'attimo finale, prima di vibrare il colpo decisivo di martello, provai paura, paura di farle del male.
Emise solo un lieve gemito e si accasciò sul pavimento. I suoi lunghi capelli le coprivano il viso, il suo dolce viso di fata. Scostai piano i capelli, i suoi occhi neri erano fissi, stupiti.
Piansi per lei, recitai come Catullo una bellissima poesia, che incisi su un enorme tronco di rovere siciliano. Poi cominciai il mio grande capolavoro finale: scolpii lei.

Ero sudato e stanco, affamato da matti; per due giorni lavorai ininterrottamente per lei; e lei era lì, sublime, adagiata dentro la sua dimora, dentro quel meraviglioso tronco di rovere dei nebrodi; la baciai teneramente; poi con abbondante colla vinilica la sigillai. All'esterno la intagliai nuda come una Venere, nella parte superiore circondata da fiori e piante bellissime.

Col muletto portai quel tronco all'ingresso del capannone, lo issai, lei era lì, bellissima come un bronzo di Riace, solo che era di rovere siciliano.
Poi mangiai i suoi pesci rossi, unici esseri viventi che amava, bevvi l'acqua, ed ero come "liberato", feci un bel falò con le sue cose; infine sfinito l'ammiravo, sembrava parlarmi, ma non favellò, la insultai, mi sfogai dissi cose mai dette; ero felice e triste insieme.

Ricevetti molte offerte per anni, per quel mio capolavoro; tutti potevano ammirarla, ma nessuno poté più averla: ormai era solo mia e per sempre.

I suoi amici, amanti, vennero ad informarsi, a cercarla, ma lei era partita, chissà con quale amante e chissà per dove.

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La laurea

Non ci credeva nessuno. Aveva preso il diploma magistrale con la sufficienza e poi lì a lavorare al forno, tutte le notti, e al mattino non subito a letto, ma nella segheria a tagliare legna. Doveva aiutare la famiglia.

Erano già passati sette anni dal diploma quando disse ai genitori: "voglio laurearmi". Tutta la famiglia rise di cuore, come se avesse ascoltato una barzelletta divertentissima, lui voleva laurearsi, c'era proprio da ridere.

"E poi devi aiutarmi", gli disse il padre, "ormai non puoi né lasciare il lavoro né negarmi quelle poche ore di lavoro: le cambiali..."

Ma Salvo quella laurea la voleva a tutti i costi, era diventato il suo traguardo.

Adesso doveva riuscire a trovare il tempo tra forno e segheria.

Studiare, o almeno provarci; gli ostacoli, la poca fiducia degli altri, specialmente i suoi, erano diventati la sua forza, doveva dimostrare che poteva farcela. E non con la sola sufficienza; doveva stupirli, superare se stesso; rinunciando certo a tanto e per anni non uscire la domenica, trascurare la sua Gloria, ma doveva farcela.

Furono anni di materie date di nascosto, di scuse con gli amici, mentre a Gloria diceva: "lo faccio per noi, vedrai, ci vedremo poco, però..."

Lei aveva sempre acconsentito e aveva rinunciato di buon grado a tante uscite. Fino a quella sera in cui lei gli disse chiaro e tondo "devi portarmi al concerto!"

"Devo studiare, lunedì ho un esame troppo importante."

Fino a quella sera Gloria sopportò, poi sbottò di colpo e lo mandò al diavolo. "Io voglio uscire", disse seccamente, "sono giovane, devo divertirmi. La tua laurea non è poi così importante, o almeno non tanto da portarmi a rinunciare persino a vivere. Perciò o mi porti a quel concerto o ci andrò con Luigi e tutto finisce qui!"

E la sua storia d'amore con Gloria finì davvero lì. E non solo; finirono anche le amicizie, quelle poche che aveva, finirono le notti di sonno; perse ben venti chili, da novanta che ne pesava scese a settanta, perse giorni di sole sempre chiuso tra il forno, la sua stanza e la segheria, e pianse anni di lagrime amare, quando Gloria sposò il salumiere.

Ma oggi, finalmente ha avuto la sua gloria anche lui: 110 e lode! Sulla strada della vita troverà ancora GLORIA.

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Cirsium Heterophyllum o Cardo Triste

Ero giovane; forse era una scusa, ma giovane lo ero davvero. Adesso ero li, fu inevitabile il mio ritorno sull'appenninico, questo almeno glielo dovevo.

Era adagiata sul letto, dentro un vestito rosa che somigliava tanto a quello che nel 1975, indossava quando usciva con me, o forse era quello seduto lì in mezzo a degli estranei; solo il viso della madre mi era familiare poverina, com'era pallida. Ripensai a quei mesi meravigliosi trascorsi con lei, mi amava di un amore speciale durato anni. Per me fu solo un avventura, un modo per rompere la monotonia dei militare.

Ma era bellissimo passeggiare con lei lungo i sentieri, i ruscelli, ed era bellissimo fare l'amore; aveva otto anni più di me e fu per sbaglio che la conobbi. Ripensandoci, voleva uccidersi quel giorno, aveva i capelli come un riccio e gli occhi rossi, era triste e gli ero passato accanto, si era voltata a guardarmi . "Che bruttona" pensai e proseguii, ero incazzato nero, quegli stronzi mi avevano lasciato a piedi, avrei dovuto percorrere molti chilometri

Ma fatti pochi passi, mi voltai indietro appena in tempo per vederla sul parapetto, la presi al volo, si dimenò un po' tra le mie braccia piangendo e urlando di lasciarla morire.

Nel suo dimenarsi, mi ritrovai a stringerle una mammella prosperosa e soda, si calmò e la lasciai, cadde a terra e gli feci notare che si sarebbe sfracellata sui massi, quel fiume non era che un rigagnolo d'acqua.

“O affogata o sfracellata, sempre morta sarei, che poi è quello che volevo.”

“Ma perché?” chiesi.

Ti importa, forse? non so neanche chi sei e tu non sai chi sono io.”

“Possiamo rimediare presentandoci” dissi, e ci presentammo. Viola era il suo nome.

Quel giorno facemmo due passi, scendemmo dal sentiero fino al ruscello, si lavò il viso e sì passò le mani tra i capelli, io la guardavo non era male, aveva un bel fisico, soprattutto un bel seno prosperoso. Aveva due occhi scuri molto espressivi, però tristi, non era molto bella in viso, ma in totale piacente.

Insistetti, volevo sapere perché volesse morire.

“Morirò comunque, prima o poi”.

“Ma è il destino di tutti” .

“Vedi quel cardo” disse.

“Quale?” chiesi. Non sapevo certo cosa fosse un cardo. Mi mostrò una pianta selvatica con dei fiori rosso porpora, aveva dei fusti eretti tra 150cm e il metro, con foglie rade e spinose e in cima quei fiori.

“Sai”, disse, “lo chiamano Cardo Triste, proprio come me” fece una breve pausa e continuò “anche se contiene la tristezza e l'allegria.”

“Come” dissi, “spiegami tutto”  non è che mi interessasse molto, ma era un modo parlare, per distoglierla dall'idea del suicidio.

“Sai in base alla dottrina dei segni, gli antichi erboristi lo consideravano la pianta dell'allegria; le sue foglie immerse nel vino, rendono chi lo beve, molto allegro.”

Risi di cuore.

“Non scherzo”, disse, “è tutto vero, io studio le piante spontanee, è una mia passione, un modo per non pensare.”

“A cosa” chiesi, “al suicidio?”

“Beh” disse, “per oggi è passata; ci sono giorni che cominciano male e lo sconforto è totale.”

“Ma cos'hai? Perché vuoi morire?”

“Andiamo” disse, “accompagnami a casa, poi ti farò accompagnare da mamma; stai alla caserma vero?”

“Certo” dissi. Mi precedeva di qualche metro, prima avevo notato che zoppicava lievemente, ma avevo pensato a qualche contusione o slogatura nel tentativo di suicidio di prima; adesso invece mi era chiaro: aveva una gamba leggermente più magra dell'altra e dalle suole, qualche centimetro più corta.

Arrivammo in vista di una bella casa. “Acqua in bocca con mamma intesi?”

“Va bene” dissi.

La madre uscì sul pianerottolo, era uguale alla figlia, un po' più in carne e le gambe normali. Lei le gridò: “Mamma c'è un militare appiedato, lo porti alla caserma?”

“Certo, però possiamo prima offrirgli qualcosa, le va un buon caffè?” disse.

“Certo, è gentile” dissi.

L'interno era accogliente e fresco, il sole d'agosto sulla strada mi aveva un po' cotto. Presi con gusto il caffè freddo, poi mi accompagnarono entrambe alla caserma. Arrivati, la madre rimase in macchina, lei venne al cancello.

“Non so come, ma voglio rivederti” le dissi.

Lei disse: “Dove sto lo sai, quando vuoi”.

Ero confuso, non sapevo che fare, per due giorni mi pervase un senso di inquietudine.

Finché tornai a cercarla, facevamo lunghi discorsi su tutto. A volte parlavamo di fiori e piante, andavamo al vecchio mulino per giorni e giorni, era gioiosa, stavamo bene insieme. Finché un giorno, mi spiazzò, lasciandomi senza fiato. “Perché non mi metti mai le mani addosso?”

Rimasi muto.

“L'ho capito che ti piacciono le mie tette, ti vedo, sai, sbirciare appena mi abbasso...

Non sapevo né che fare né che dire.

“Che diamine, allunga le mani, toccale!”

Avevo 19 anni, un'educazione bigotta e moralista. Venivo da un piccolo paese, non ero preparato, proprio non lo ero.

Scoppiò a piangere di colpo.

“E' il mio destino, agli uomini faccio solo compassione, pena; anche quando andavo a scuola, ero l'amica di tutti ma mai nessuno andò oltre con me. Nessuno mai mi ha toccata, la mia anomalia, la mia malattia mi emargina.”

Piangeva, le carezzai i capelli ma non sapevo che dire.

“Non so che dirti” dissi.

“Non dire nulla non serve, ti faccio schifo vero? Ti ripugna toccarmi, ho 27 anni e nessuno mai mi ha baciata, toccata, amata.”

Le saltai addosso... e fu sesso e fu amore. Bellissimo, dolcissimo. Avevo avuto altre donne, ma con lei fu sesso, amore forte; l'attrazione sessuale era enorme, mi eccitavo fino a raggiungere vette altissime. Lei era solare, i suoi occhi sprizzavano gioia.

“Non mi ami, lo sento, ma mi desideri, questo lo so; mi fai raggiungere la gioia e sono felice anche se i mesi passano e andrai via.”

Mi mise la mano sulla bocca.

“Non dire nulla” disse, “non fare promesse che non puoi mantenere, sei più giovane di me ed è giusto così.”

Riuscii solo a dire “Grazie riesci sempre a parlare per me.”

Continuammo i nostri incontri finché, inesorabile, arrivò la fine. Non potei affrontarla, guardarla negli occhi. Fuggii via di notte come un ladro vigliacco, le lasciai un biglietto nel quale non potei scriverle che "perdonami di non amarti, ma ti voglio bene davvero".

Non potevo vederla sul quel letto, dovevo uscire di lì. Andai fuori fino al ruscello, il paesaggio era cambiato, gli anni erano trascorsi lasciando il segno, oltre che su noi, su tutto.

Dieci lunghi anni erano trascorsi. Non le scrissi mai, né le telefonai; in quegli anni avevo avuto altri amori ed ero prossimo al matrimonio con Silvana, che amavo tanto. Ma ero triste, avevo un peso sul cuore. Lei in quegli anni era stata discreta; per le grandi festività mi mandava una cartolina con su scritto "Auguri ciao”. Camminavo finché rividi il Cardo triste, era eretto sul bordo della strada. Pensai chissà chi di noi fosse più triste. Una voce mi fece sobbalzare, era sua madre.

“Non ho capito” dissi.

“L'hai resa felice, prima di incontrare te, fin da ragazzina, tentò varie volte il suicidio ed era sempre triste, depressa; finché sei apparso tu. Da quell'anno fino alla fine é stata felice, solare, anche quando la malattia era ormai avanzata.”

“Di cosa è morta?”

“Fin da bambina, a parte la menomazione fisica, soffriva di un tipo di leucemia che andò sempre peggiorando.” 

"L'hai resa felice”...
mentre il treno mi riportava verso casa pensavo a quelle parole...
"L'hai resa felice.”

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La sua gran donna

"Esco di qui per sempre, e sei una nullità, mi aveva avvertita mio padre che eri un misero mortale, comune a milioni di operai che nascono e muoiono operai; non ti dovevo sposare, che potevo avere di più perché io valgo di più. Ora basta! Ti pianto!"

L'aveva già fatto altre volte e Nino ogni volta l'aveva implorata e convinta a desistere.

"Non dire niente... stavolta andrò via davvero, non provare a dirmi che mi ami perché io ormai non ti amo più!"

Ma Nino stavolta non parlò.

"Mi hai fatto vivere di rinunce in questi 4 anni, sono stati anni di privazioni non sei mai riuscito a portare a casa uno stipendio intero, fra scioperi e cassa integrazione... una miseria, meno di due milioni. E non dire che altri con uno stipendio così tirano su anche due, tre figli, i tuoi colleghi di lavoro vivono miseramente perché hanno delle misere donne accanto, ma tu hai me, anzi avevi me! Vado via, via da te misero mortale, nullità!"

I muscoli delle mani si irrigidiscono, le braccia lungo i fianchi serrano i pugni chiusi. I denti si serrano nello sforzo di trattenere quel fiume di parole e di insulti che vorrebbe vomitarle addosso mentre lei continua...

"Sono riuscita a restare con te 4 anni in queste condizioni, è proprio pazzesco, pazzesco! Avevo rinunciato a vivere, io, una gran donna!"

Nino guarda in silenzio la sua gran donna. Adesso la vede piccola, mentre si muove verso la porta.

"Inutile che cerchi di fermarmi, che ti metti tra me e la porta, io uscirò di qua, ad ogni costo, anche se dovessi passare sul tuo cadavere."

Nino spalanca la porta. Il cespuglio di corbezzolo, che Nino curava a palloncino, si busca una tremenda valigiata che lo scuote, facendo cadere alcuni dei suoi frutti rossi sui mattoni del pianerottolo. Nino si china, li raccoglie e comincia a mangiare con gusto. "Sono molto dolci", commenta a voce alta, "oggi forse più che mai", poi guarda davanti a sé, lei non c'è più, è già sparita nel vicolo.

Nel viale le foglie variopinte del pioppo mostrano i segni dell'autunno che avanza, il cielo è sereno e stranamente lo è anche Nino. La paura che aveva di perderla forse era solo paura di affrontare il problema e di risolverlo.

Si sente felice. Nel cielo una gazza sfreccia veloce e Nino osservandola sorride, anche il suo animo ora s'innalza libero.

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Quel giorno a raccogliere funghi

Il crepuscolo lo sorprese agitato, un dolore lancinante al fianco. Erano ore che correva su e giù, non trovava più la via del ritorno. Gli alberi sembravano tutti uguali; l'ansia e la consapevolezza di essersi perso gli martellavano in testa e perfino quel paniere di funghi che doveva rappresentare il suo trofeo, da mostrare agli amici al bar, stava diventando un peso insopportabile, tanto che in quelle ore gli era balenato in mente più di una volta il desiderio di disfarsene.

Si siede un attimo per recuperare le forze, la sua mente è un groviglio di pensieri, un brivido gli corre lungo la schiena, di freddo o di paura. Una domanda si pone inevitabile: ci sono i lupi nei boschi dell'Abruzzo? Quella domanda fatta a se stesso, così a bruciapelo, lo lascia senza fiato. Da bambino aveva paura del lupo; il lupo in soffitta, in cantina e in tutti quei posti dove non doveva assolutamente andare.

E lì c'erano?

Le ginocchia gli tremano, deve posarci le mani sopra per fermarle. Scatta in piedi. Macché paura, ripete a se stesso, sarà stato il freddo. Che diamine, sono un uomo di 35 anni, ho due bimbi che contano su di me e una donna, Lucia, che è tutta la vita mia, devo andare via da qui, coraggiosamente, scendendo dovrei arrivare a valle prima che faccia buio, basta seguire la discesa, non dovrebbe essere difficile.

Si alza e si avvia. Qualche uccello notturno comincia già la caccia, ma lui non si volta neanche, continua imperterrito per la sua strada, probabilmente era un gufo o una civetta, chissà, volava basso su di lui.

Le ombre della sera lo inseguono sempre più minacciose, un silenzio davvero spettrale lo circonda. Di tanto in tanto si sente qualche suono o rumore e il crepitio dei suoi passi tra le foglie e i rami secchi. Ad un tratto e come per incanto tra le fronde in lontananza si intravedono le luci del paese e Salvo, senza perdere altro tempo, raggiunge la sua macchina, deposita la sua cesta di funghi e con sfacciataggine passa al bar a vantarsi da esperto della sua raccolta di boletus edulis, che mostra con orgoglio. Poi come se niente fosse accaduto, si avvia verso casa.

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Il the alla menta

Il bianco della tazza da the spiccava in bell'evidenza sul tavolino di marmo rosso, in sottofondo una soave musica di Mozart, sulla mia sinistra un bel gatto tigrato addormentato sul tappeto orientale; una lieve brezza di maggio faceva vibrare le foglie dell'immensa pianta, per me tropicale, mai vista, tutt'attorno alla pianta un cespuglio di menta spandeva nell'aria un odore forte.

Lei mi versò il the e disse:

"Nel pomeriggio è salutare gustare un the caldo, non trova?"

"Sì", risposi, "grazie", mentre pensavo che a quell'ora non avevo mai bevuto il the, che anzi prendo solo in inverno inoltrato e solo se sto poco bene.

"Finalmente si è deciso ad accettare il mio invito, sa lo sapevo che lei è diverso dagli altri che mi evitano, credono che sia una iettatrice portatrice di malocchio e disgrazie varie, tutti si toccano passando davanti casa mia, lei no?"

"No io lo faccio solo quando sono eccitato", replicai, ma mi pentii subito di averlo detto, così mi scusai per la volgarità.

"Non fa nulla sa, è normale, dunque lei non è superstizioso, bene ne sono felice, sarà l'occasione per scambiare due parole ogni tanto, le dispiace?"

"Oh no anche a me fa piacere parlare con qualcuno di tanto in tanto, qui non conosco nessuno, mi distraggo leggendo alla libreria di Pegacity".

"Da quale località viene, sostituisce il portalettere, vero?"

"Sì, tre mesi di supplenza dei quali uno è già passato; io sono invece di Librizzi in provincia di Messina, un piccolo paesino di collina."

"E dove vive, in pensione? Paga molto?"

"Sono in mezza pensione e pago 800.000 al mese, quasi mezzo stipendio."

"Sono degli approfittatori, le faccio io una proposta: venga a stare qui da me, la casa è grande ed io sono sola, ho ottanta anni suonati e comincio a soffrire la solitudine… sa, non le costerà nulla."

"Signora, lei mi prende un po' alla sprovvista, non so che dirle."

"Ci pensi con calma e se lo riterrà opportuno la stanza è sempre qui e stia tranquillo che non attenterò alla sua privacy; l'avverto però che ho la reputazione di strega che ormai è come un marchio e siccome tutti mi evitano faranno di tutto per tentare di dissuaderla dal venire qui."

Sorrisi, finii il mio the e poi chiesi incuriosito:

"Che tipo di pianta è questa?"

"Non lo sa? E' la pianta del pistacchio, il suo nome è Pistacchia."

"E non ha frutti?"

"Oh, non fruttifica mai; è una questione di impollinazione: ci vuole una pianta maschio ogni otto femmine, questa è sola, poverina."

"E' maschio o femmina?"

Lei sorrise, "non lo so, proprio non lo so."

"Bene", risposi, "arrivederci."

Ripresi a distribuire la posta nel Rione delle Arti (troppa posta ricevono gli artisti!) senza riuscire a dimenticare quella tenera vecchietta e quel dolce sapore del the caldo, un po' troppo zuccherato, ma un signore dal fare scorbutico con un grosso porro sul naso mi riportò alla mia triste condizione; ero stanco, sudato e in un posto che neanche conoscevo.

"Che modi sono questi, alle cinque del pomeriggio, chi cerca… che cavolo rompe… io cerco di riposare e lei suona, non compro nulla, vada via!"

"Mi scusi io non sono un venditore, sono il sostituto del postino."

"Cosa? E distribuisce la posta a quest'ora, mi risulta che si faccia di mattina."

"Lo so, ma purtroppo per me non riesco a smaltire il lavoro arretrato e poi non conosco il posto, le vie, le persone: i rioni sono tanti a Pegacity!"

"Bene", riprese con un sorriso che mostrò i suoi denti ingialliti dal tabacco, "venga dentro che le offro da bere, avrà certo sete."

Superai quella soglia come sollevato, aveva cambiato tono, era gentile ed io avevo sete, quel the mi aveva procurato una forte arsura.

"Ecco, beva", mi disse davanti a una bevanda che aveva il colore di una palude africana. Guardandomi perplesso disse:

"Beva, beva pure: è un the alla menta, un bel the freddo alla menta di mia produzione."

Il pensiero corse di nuovo alla vecchietta, ma bevono tutti the qui, pensai mentre cominciavo a bere rassegnato. Anche in questo caso era la prima volta che bevevo un the freddo, non era una mia bevanda abituale. Bevvi piano e devo dire che era molto dissetante, mi sentii sollevato e rinfrancato; consegnai la posta e poi me ne andai.

Alla pensione quasi piansero per me appena dissi loro che a fine settimana sarei andato via e proprio lì mi informarono che altre persone che avevano accettato l'ospitalità della strega erano sparite nel nulla: mi dissero che dovevo essere impazzito e per farmi desistere da quell'idea mi abbassarono di 200.000 lire la pensione, dovevo restare lì se volevo restare vivo.

Chiesi la prova di quanto affermavano: per esempio, nessuno lavora per lei, mi riferirono, eppure ha un parco ben curato!

"Un parco? Un piccolo giardino davanti alla casa", dissi.

"No, proprio un parco all'interno della villa", io ho visto solo la facciata davanti...

"Una villa con centinaia di stanze; come fa una vecchietta sola a pulirla se non con l'aiuto dei demoni?"

"Ma fate i seri", ripresi, "lo fa con l'aiuto di Dio, è in buona salute e non facendo altro può anche farli da sola quei lavori.

Mi portarono la nonna che era coetanea della strega e mi raccontò di strani rumori, strane luci, voci e pianti di bambini sentiti per anni, circa 40 anni prima e a tutte le ore; strani movimenti e ombre notturne poi si susseguono da anni. E poi la spesa che fa!

"Che cosa compra di così strano?"

"Rossetti, ombretti, smalti, profumi, scarpe di misura 38, calze, vestiti femminili taglia 50, assorbenti… E l'abbiamo tenuta d'occhio: non si trucca e non ha mai messo nulla di ciò che per anni ha comprato. Fa la spesa per più persone, non può assolutamente mangiare tutte quelle cose!"

"Beh, ha un gatto".

"Compra anche il cibo per gatti e ai tempi che sentivo il pianto comprava cibo per bambini, vestitini, giocattoli, come se in quella casa ci fosse davvero un bimbo."

"Beh", dissi io, "non credo che ci sia nulla di così diabolico, sarà un po' fissata, magari ama la stramberia."

"Senta", disse infine la vecchia, "dirò a mio figlio di prenderle solo 500.000 lire per questi due mesi, ma non vada lì nel modo più assoluto."

Chissà perché io, invece, ho sempre fatto l'opposto di quello che gli altri si aspettavano, fin da ragazzo; così decisi che sarei andato lì, dovevo farlo non per i soldi, ma perché sentivo dentro di me qualcosa che mi spingeva a farlo.

Bussai deciso a quella porta, lei mi aprì con un sorriso.

"La aspettavo", disse, "Venga le mostro la sua stanza."

Dappertutto c'erano mobili, bellissimi stucchi, mosaici e sui muri dei quadri bellini, però moderni, così chiesi:

"Sono belli, ma chi li fa e con quale tecnica?"

"Si chiama trompe l'oel, le dirò chi li fa un'altra volta."

Poi mi portò in quella che doveva essere la mia stanza: un letto, un armadio, sempre in stile antico e sulle pareti quadri con ballerine in tutù, copie perfette delle ballerine del grande Degas.

"Questa è la sua stanza, in fondo a sinistra c'è il salone, ci riuniamo tutti lì per la cena."

Uscì con un lieve inchino. Le corsi dietro nel corridoio…

"Senta!", lei si voltò facendo una piroetta.

"Sì !?"

"Lei.. lei ha detto ci vediamo tutti?"

"Certo caro, tutti, io, lei e tutti i fantasmi di questa casa", sorrise e se ne andò.

Mi sentii gelare il sangue nelle vene, un fremito di paura mi assalì, una gocciolina di sudore dalla nuca scese sulle natiche facendomi sussultare; che diamine, ripetei a me stesso, scherzava, avrà uno spiccato senso dell'humour.

Disfeci la mia valigia, riposi i capi nell'armadio, udii quasi per caso la musica a bassissimo volume che proveniva dal piano superiore, la solita musica di Mozart.

Mi venne voglia di vedere il salone, così mi mossi in quella direzione. Appena vi entrai, sulla parete centrale vidi un'immensa opera di circa venti metri per dieci, raffigurante una copia in scala maggiore de "I Girasoli" di Van Gogh, mentre sulla sinistra un'altra tela raffigurava "Il prosciutto di Manet", anch'essa però era di dimensioni maggiori, forse tre metri per quattro; tutt'attorno poi c'erano tele con vari dipinti che a prima vista non riuscii ad identificare.

Mentre assorto ammiravo quei quadri, in verità perfetti, una dolce voce femminile molto sottile disse:

"Buonasera, vedo che apprezza i miei quadri"

Mi girai e rimasi senza parole: una donna alta circa 1 m. e 50, sui 30/35 anni, molto in carne, con sandali da francescano, gambe massicce e pelose come quelle di un uomo, con una gonna a pieghe molto ampia a fantasia, un top verde pisello che evidenziava un seno enorme. Il viso sembrava una maschera di Pierrot, ma truccato male e in modo eccessivo: mi sembrò di rivedere l'uomo del the alla menta. Ero esterrefatto: era una visione, era lui oppure sua figlia con quel porro enorme sul naso?

"Lei è Nunzio, vero? Piacere, Prisca."

Ho la reputazione di avere grandi mani, ma le mie le avvolse completamente in una stretta decisa ed energica, poi disse:

"Ho tanto di quel tempo disponibile che per farlo passare dipingo, lo faccio da quando ero bambina."

"E' brava", le dissi, "ma fa solo copie?"

"Oh, no. Amo molto gli impressionisti e li copio, ma ho anche uno stile mio, anzi due per essere più precisa."

"Come due?"

"Venga."

Mi prese la mano e mi trascinò felice su per le scale; nonostante la mole e le gambe corte e tozze, saliva le scale di corsa e mi trascinò dietro a sé. Giunti al piano superiore mi fece attraversare un corridoio lunghissimo; in fondo, da una piccola finestra, filtrava una tenue luce, fuori era quasi buio.

Dopo aver attraversato ambo i lati e non so quante porte, giungemmo alla meta; spalancò una porta sulla nostra sinistra e mi buttò dentro, poi finalmente mi lasciò la mano che mi faceva un male boia.

"Guardi, guardi" e volteggiò per l'enorme stanza come una danzatrice da Lago dei Cigni.

Era una stanza di almeno 50 metri quadri, nel soffitto un'unica opera: un cielo azzurro, credo ci fossero tutti i volatili del mondo nei loro colori migliori. Sulle pareti fiori, insetti, pesci, piante, uno spettacolo; non sapevo dove guardare prima mentre lei rideva felice e solare. Senza mentire le dissi che era un genio, che era un lavoro meraviglioso. Mi stampò un bacio sulla guancia.

"Grazie", disse d'impeto, "Oh mi scusi, ma sa mai nessuno mi dice che sono brava."

"Non fa niente", risposi.

"Beh venga adesso, deve vedere l'altro mio stile" disse diventando triste e seria.

Uscimmo sul corridoio, la porta di fronte era già aperta: all'interno quadri orribili, mostri, animali, deformi, diavoli, streghe. Alzai gli occhi al soffitto e vidi un cielo nero e cupo con migliaia di serpenti che mi sembrò stessero precipitandomi addosso, mi prese la paura e una gran voglia di fuggire via. Ma ero in trappola, lei era sulla porta, ferma, immobile, fissava un punto di fronte a lei, un quadro con dei fiori appassiti e frutta marcia. Due grosse lacrime le solcarono il viso sciogliendo gran parte del trucco della maschera che aveva disegnata sul volto, fino ad arrivare sul top verde. Di colpo il top si trasformò da verde in vari colori, quella che arrivò sul pavimento diventò invece una macchia tra il viola ed il rosso sangue in cui sguazzavano come anguille dei vermi orribili, cacciai un urlo!

Lei fuggì via lasciando libera l'uscita, in me rimase solo un pensiero: fuggire via da quella casa. Saltai fuori e corsi in quel corridoio interminabile; stavo per precipitarmi giù per le scale quando mi si mise davanti un uomo che, vedendomi trasalire, si scusò.

"Mi perdoni se l'ho spaventata", disse "non volevo."

"Lei chi è?" chiesi.

"Basco Eutitio, prof. di disegno, pittore e scultore, piacere. Sa, insegno a Prisca le tecniche, è brava vero? A Parigi i suoi quadri sono ben quotati."

"Quali? Quelli con i mostri?"

"Ah glieli ha fatti vedere entrambi?"

"Sì entrambi"

"Sa, lei è il primo al quale lei ha permesso di guardare i suoi due mondi completamente opposti, quello interiore e quello esteriore; povera ragazza, è sola, triste, brutta, anzi orribile. Ma quanti di noi sono belli fuori ed orribili dentro? Eppure l'aspetto esteriore domina troppe volte le nostre misere vite."

"Lei vive qui professore?"

"Certo, da 30 anni."

"Da trenta anni?"

"Si, sa ero un promettente prof. di disegno, ma ero solo riuscito a fare qualche supplenza, quando la signora mi contattò: dovevo dedicarmi ad una bambina di 10 anni con tendenze artistiche; con una paga elevatissima, vitto, alloggio e 300 milioni all'anno per 30 anni. Domani scade il mio contratto."

"E anche il mio", disse una voce dietro di me.

Mi voltai piano e vidi una donna di circa 50 anni, ben curata ma strabica e con il corpo un po' incurvato.

"Le presento la dottoressa e professoressa Rufina Maiela, laureata in lettere, lingue, storia, filosofia e qualche altra laurea, nonché mia moglie."

"Piacere", disse "anche io vivo qui da 30 anni e la storia è quasi la stessa, solo che la paga è diversa, la mia infatti è di 500 milioni all'anno; l'unica pecca è stata una norma del contratto che ci impediva di farci vedere dagli abitanti del paese, ma il gioco valeva la candela."

"Adesso dobbiamo andare, ricchi e felici, sì felici, ci siamo incontrati qui anni fa e più che altro era la nostra solitudine ad unirci, ma ora ci amiamo davvero."

"Come mai adesso ve ne andate?"

"Prisca ormai non ha più bisogno di noi; e poi si sposa e va a vivere a Parigi."

"Bene, un bel cambiamento, da Pegacity a Parigi; ma sono molto ricchi?"

"Certo, erano già ricchi di famiglia, una delle caste più antiche della Sicilia; negli ultimi anni hanno guadagnato miliardi speculando in borsa e con azioni varie delle più grosse società mondiali."

"Ed il padre di Prisca chi è? Dov'è?"

"E' una brutta storia: molti anni fa un losco individuo del paese ha abusato della signorina che da quello stupro rimase incinta e purtroppo Prisca è l'esatta copia del padre. Lei nascose tutto, nessuno è al corrente dell'esistenza di Prisca, neanche quell'uomo sa di avere una figlia. Scendiamo ora, la cena sarà sicuramente pronta."

Giunti nel salone la tavola era imbandita in modo regale. La signora era felice, seduta a capotavola, mancava Prisca che aveva preferito mangiare in camera sua.

Mangiammo totalmente in silenzio, si sentiva solo il nostro masticare ed il rumore delle posate che intonava nell'enorme salone.

Appena finimmo, la signora mi chiese di ascoltarla attentamente per conoscere il motivo della mia presenza lì; agli altri chiese di rimanere, per fare da testimoni sia all'accordo sia al matrimonio.

"A quale matrimonio?"

"Ma a quello suo con Prisca!"

"Il mio ?!?"

"Si, la proposta è la seguente: lei si sposerà Prisca ed andrete a vivere a Parigi. Lei in cambio otterrà un miliardo subito ed un miliardo all'anno per ogni anno trascorso con Prisca. Loro saranno i tutori di Prisca: visto che sono i padrini di Prisca, sia di battesimo che di cresima, saranno anche i testimoni; non vivranno con voi, ma mensilmente Prisca li contatterà e ne potrà disporre liberamente.  Se non ci saranno figli e lei dovesse sopravvivere a Prisca, sarà tutto suo: un patrimonio che oggi si aggira sui 340 miliardi. Se invece lei lascerà Prisca o divorzierà perderà tutto."

"Ma… io sono senza parole…"

"Beh, non dica nulla adesso, starà qui un mese e poi mi darà la risposta. Buonanotte, e ci pensi bene."

Ritornai nella mia stanza dopo aver salutato i professori.

Mille mostri popolarono il mio dormiveglia, finché all'una decisi: non avrei sposato quella povera donna, non avrei rinunciato agli occhi belli della mia Maria, la mia dolce ragazza che avevo lasciato al paese e che non vedevo da due mesi. Non c'erano miliardi che potessero convincermi, di vita ce n'è una sola e bisogna viverla al meglio, forse senza lussi, ma almeno con serenità.

Preparai le valige ed in punta di piedi cercai di uscire; sul portone al buio cercai la maniglia, accovacciato a terra c'era il gatto, non lo vidi ma lo sentii dopo avergli pestato la coda, poiché emise un urlo e mi graffiò una gamba.

In strada respirai forte, finalmente ero libero. Ritornai con passo da maratoneta verso la pensione voltandomi spesso per assicurarmi che nessuno mi seguisse.

Giunto alla pensione fu come tornare alla realtà: due ragazzini fermi su un motorino si baciavano molto teneramente.

Varcai la porta, dietro il banco non c'era nessuno: la chiave della mia stanza era il numero 7, la presi e corsi su. Caddi sul letto esausto e mi addormentai.

Il sole mi svegliò con il suo tepore; guardai l'orologio, erano le 7.20. Uscii sul balcone: davanti a me la campagna appariva rigogliosa. Scesi giù in fretta, dovevo spiegarmi con i proprietari.

"Buongiorno, ben alzato."

"Ieri sera sono rientrato all'una e, non trovando nessuno, sono andato a dormire."

"Come al solito, è normale."

"Sa, vorrei riparlarle delle 500.000 lire mensili."

"Non so proprio di cosa stia parlando!"

"Io ho deciso di restare ed accetto la vostra offerta di sconto."

"Sconto? Che sconto, di cosa parla, si è alzato strano stamattina."

Risposi: - "E' vero, mi scusi, stanotte ho dormito proprio male."

"Colpa vostra, voi giovani andate a letto troppo tardi."

Gli feci un cenno con la mano ed uscii. Procedevo verso la porta confuso… Avevo dunque sognato tutto? Dovevo scoprirlo a tutti i costi. Rifeci il giro verso quella casa finché la notai; esisteva! Più mi avvicinavo e più l'ansia mi assaliva.

Giuntovi di fronte vidi l'enorme pistacchia secca, uno scheletro, attorno la nuda terra senza menta. Ritornai verso la casa del the alla menta, anche quello faceva parte del sogno o forse era realtà. Giuntovi trovai una casa diroccata, semicoperta dai rovi e da un enorme albero di eucalipto.

Lì non abitava nessuno da tanti anni… Eppure lo avevo bevuto lì un the alla menta!

Più confuso che persuaso cominciai a convincermi di aver davvero sognato tutto, ma mentre smistavo la posta, nel raccogliere delle buste che mi erano cadute, notai la mia gamba graffiata…

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Sapore di città

"Chiunque debba attraversare lo stretto ci deve passare davanti", diceva Lucio, "Sapore di città sarà il locale dei turisti, il locale dei camionisti, con sale grandi, ben arredate, con vista sullo stretto, da lì si può vedere la Sicilia come a due passi"; Lucio era davvero entusiasta. "E poi Berlusconi farà il ponte! Rilancerà alla grande Reggio Calabria".

Ci si era buttato a capofitto, lavorava anche quindici ore al giorno perché tutto fosse perfetto. Il datore di lavoro era un amico d'infanzia e Lucio gli dedicava l'anima pieno di gioia, sentiva quel locale come se fosse un po' suo. E "Sapore di città" aprì e diventò realmente un locale di successo come Lucio aveva immaginato; poi all'improvviso la beffa, il suo licenziamento che arrivò come un fulmine a ciel sereno, senza alcun chiarimento ma con tante scuse inutili.

Lucio non lo sopportò e scelse la via peggiore. Pochi giorni dopo, infatti, deluso e depresso come non mai, si buttò proprio nello stretto.

Neanche Nicola capì l'amico; anche se non si dava pace, gli sembrava assurdo uccidersi per un licenziamento.

Lo stesso destino, di lì a poco, toccò anche a lui, una doccia fredda, il suo capo lo mise alla porta e furono tante le porte alle quali bussò invano.

E' preso dallo sconforto, l'ansia lo assale, le cambiali firmate per il corredo della figlia, il mutuo da pagare; da poco inoltre ha comprato un'auto alla moglie, aveva fatto tutti i conti prima per far quadrare il bilancio, ma non era servito a niente perché la crisi generale si riversò anche su lui facendogli crollare tutti i piani, facendogli sballare tutti i conti, facendogli crollare il mondo addosso.
Seduto su quella panchina del lungomare, sconfitto e deluso, non può fare a meno di pensare all'amico Lucio, al vuoto interiore, alla delusione cocente che prova dentro; non può fare a meno di pensare che su quaranta non era giusto che tutto ciò succedesse proprio a lui e solamente ad altri tre.
Purtroppo però la sua qualifica all'interno della ditta, che in quei 17 anni si era spostata in altri settori, non era più contemplata, il "cementista formatore" che c'entrava in un'industria di lavorazione marmi - onici e graniti?

Ora capisce perché Lucio si è buttato a mare: la delusione, le amarezze, la rabbia interiore piegano anche l'uomo più forte.

Non sa che fare, ma certo non seguirà l'esempio di Lucio; lui ha due donne che lo aspettano e confidano in lui, deve risollevarsi, trovare un nuovo lavoro; sua moglie, ottimista da sempre, gli ripete di continuo che sarà questione di poco tempo, di un po' di pazienza…

Ma i giorni scorrono, ne sono già passati 15 e ancora niente di nuovo; come se non bastasse, la macchina di sua moglie è stata tamponata al parcheggio e non si sa chi sia stato, il preventivo fatto dal lattoniere ammonta a 3.950.000 lire, e dove trovarli? Un amico, fortunatamente, si offre di tenergliela in garage fino a quando potranno aggiustarla.

Il 18° giorno stanno cenando, bene o male, nel silenzio più cupo, con la TV spenta, forse per la prima volta da anni, ma cosa importa, in fondo è solo fuorviante, dà ai nervi e poi devono parlare della loro situazione familiare, quando ad un tratto suona il campanello di casa.
Con grande sorpresa è il loro testimone di nozze, mentre gli offrono da bere e dopo che lui si è scusato per la lontananza degli ultimi tempi, gli viene proposto di partecipare ad un sistema al Totogol, nel quale una quota costa 1.200.000 lire.
Ma come riuscire a decidere di spendere quella cifra se in cassa hanno solamente 1.712.000 lire? Sarebbe pazzesco, tuttavia sua moglie spinta da una strana forza interiore lo convince a rischiare, così lui più impaurito che mai si lascia andare.

La domenica sera si ritrovano davanti alla Tv per seguire gli sviluppi, anche se i primi tempi non promettono niente di buono, ma la speranza è l'ultima morire; suona di nuovo il campanello, sono i tre amici licenziati insieme a lui che hanno qualcosa da dirgli.

Si allontana dalla televisione per poter parlare indisturbati, anche se con un po' di rammarico pensando che i suoi amici gli vogliano raccontare le loro angosce, invece gli propongono di aderire ad un loro progetto, vale a dire quello di mettersi in proprio, investendo 25 milioni a testa. L'idea certo lo alletta ma per mancanza di fondi si trova costretto a rifiutare, nello stesso istante però arriva sua moglie che con gioia incontenibile gli annuncia che hanno vinto, a questo punto non gli rimane altro da fare che brindare alla nuova società e ricominciare a sorridere alla vita.

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E' Natale

"Mamma, apri mamma! Domani è Natale. Sono tre anni mamma… aprimi! Ho voglia di abbracciarti. Apri quella porta. Ho freddo mamma, piove e sto bagnandomi tutta! Mamma, ti prego, apri. Devo dirti una cosa importante."

Lui era rimasto muto, non faceva che tenerle l'ombrello, ma la pioggia si intensificava. Erano ormai inzuppati entrambi. Lei continuava a bussare e chiamare, finché Luigi sbottò:

"Basta! Sono anni che ad ogni festa mi trascini dietro questa porta. Quella pazza non aprirà, neanche stavolta!"

"Zitto, per favore. Mamma, hai sentito? Apri, fagli vedere che si sbaglia, aprimi. Stavolta non andrò via. Ricordi? Mi hai detto che per te ero morta: bene, morirò dietro questa porta, non andrò via se non apri!"

Una bestemmia più forte di un tuono.

Anche lei si voltò stupita: il suo Luigi non lo aveva mai sentito bestemmiare.

Il pensiero corse al passato, a quelle giornate nere, tra tribunali e liti in casa.

Quel porco del dottore aveva abusato di lei più volte. Quando si era ripresa, aveva confidato tutto a sua madre in lacrime. L'aveva narcotizzata e l'aveva tenuta due giorni alla sua mercé.

Sua madre non voleva che lo denunciasse, doveva tacere: il paese è piccolo e la gente parla… non si può accusare il dottore, mettere in piazza un fatto di questa dimensione. Dunque doveva tacere.

"Tu farnetichi! Deve farla franca dopo ciò che mi ha fatto? Ti rendi conto cosa mi chiedi? Io sono la vittima, e quando la vittima tace crea altre vittime. Non posso tacere non è giusto."

 "Ma io non voglio che il paese sappia, non potrei più uscire di casa!"

Difatti erano anni che non usciva se non raramente. La sua compagnia era un gatto nero. Anche lei nella sua ostinazione si creò una prigione ed allontanò la sua unica figlia da lei.

"Mamma, ora sono qui, apri! Voglio darti un bacio e poi devo darti una bella notizia."

Quella porta non si aprì.

Lei pensò a quell'ultimo giorno, quando uscì decisa da quella porta; lei la seguì fuori:

"Non andare ti prego, ascoltami!"

"Mamma, ciò che mi chiedi non è giusto. Non potrei tornare ad essere donna con questo peso dentro e sapendo quel maledetto libero. Vado a denunciarlo."

"No, ti prego! Per me sei morta se fai una cosa del genere..."

"Tu non ragioni mamma, tu non sai come ci si sente dopo uno stupro!"

"Sei sicura?"

Ricorda… quelle parole le fecero provare un brivido. Dunque anche lei? Si voltò. Sua madre piangeva.

"Mamma.. anche tu?"

"Solo che il mio fu uno stupro autorizzato, certificato..."

Ricorda che si sedette su quello scalino e guardò sua madre in silenzio; dopo essersi asciugata le lacrime, continuò:

"..avevo tredici anni allora, non sapevo nulla né di uomini né della vita; avevo i miei sogni di ragazzina. Lui erano mesi che veniva con mio padre, legava il cavallo fuori e beveva un bicchiere di vino; aveva ventotto anni più di me, mai avrei pensato che papà e mamma mi avrebbero venduta. Sì, venduta! Non fu che una vendita. Mamma venne nella mia stanza e mi parlò: il cavaliere ti vuole per moglie; ci darà la casa e il terreno e ti sposerà... ma è vecchio, brutto, grasso. Avevo tredici anni, cosa potevo capire? Entrambi i miei genitori mi convinsero che era la mia fortuna, dovevo accettare, ed accettai! Fu uno stupro che durò una vita, solo che ero vittima consapevole di essere stata sacrificata."

"Erano altri tempi. Mamma lo capisci o no che eri consenziente… io no!"

Non ricorda suo padre: morì che lei aveva 6 anni. Ma, nonostante avesse scoperto la verità sul vero rapporto dei suoi genitori, proseguì ed accusò quell'uomo e lo fece condannare.

"Mamma aprimi! Devi aprire, devo dirti una cosa meravigliosa."

"Basta!" - urlò lui.

"Non puoi ucciderti ed uccidere il nostro bambino. Vieni via o ti porto via di peso!"

Il rumore della porta che si apriva… Lei apparve in lacrime.

"Un figlio. Aspetti un figlio… aspetti… Un nipote." - tartagliò confusa.

Si abbracciarono sotto la pioggia.

"Che diamine!" - disse lui - "Non potete abbracciarvi dentro?"

Li spinse dentro, lui rimase sull'uscio.

"Entra." - disse la vecchia.

"Torno domani." - disse lui.

E scomparve sotto la pioggia.

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in Tir per via Oberdan

Parcheggiai il tir e mi avviai sul viale. Volevo rivederla, era passato un anno e l'avevo ancora dentro di me! Anche dirle solo un ciao, stringerle la mano…

Finché la intravidi tra la folla stretta a lui: la bambina saltellava davanti a loro imbrattata di gelato; lei era felice, sprizzava gioia… mi nascosi. Mi passarono a fianco: erano felici, si vedeva. Perché turbarli con i ricordi?

Come un lampo mi torna in mente tutta la storia...

Ero entrato sulla Via Oberdan con il mio tir di computer usati, una mano sul volante, l'altra alla cordicella delle trombe; un occhio alla strada, l'altro alla banchina. Come un setter da caccia punta la preda, così la puntai in lontananza, pronto ad un suono prolungato di compiacimento per essere in regola come un vero camionista. La sagoma si faceva più nitida avvicinandomi: era una bella donna. Una fiesta mi precedeva a cento metri circa, lei fece una brusca mossa come a volersi buttare sotto; poi notò il tir e si fermò.

Scalai una marcia e rallentai. Guardavo più il corpo, ma cercavo il suo viso, avevo un sesto senso per queste cose: era una maschera di pianto. Misi il piede sul freno e mi preparai a scansarla! Lei ci provò: batté solo la faccia sul cofano e si procurò una lieve ferita ad un labbro. Ci ritrovammo dentro un bar, la tempestai di domande… non ricevetti risposte. Infine, dopo essersi sfogata in un lungo pianto, sembrò più calma.

"Devo andare" - dissi, "davvero non vuoi dirmi perché volevi far diventare il mio tir assassino?"

Non rispose.

"Posso andare tranquillo o aspetti il prossimo tir?"

"Non ho dove andare" - disse, "portami con te!"

Ormai erano giorni che viveva sul divano a casa mia. Casa mia? Un porcile, prima di lei. La rimise a nuovo, teneva casa come una reggia, e mi puliva ed accudiva come un marito, solo che col marito si scopa! Con me, nisba!

Che paradossale situazione: se ci provavo piangeva, se si parlava di tutto si riusciva ad avere un dialogo piacevole e allegro, finché cercavo di sapere di più di lei… tagliava ogni discorso lì! Ci mise sedici giorni per passare dal divano al letto. Si concesse a me, senza sesso né amore, forse per gratitudine, ma averla tra le mie braccia, anche solo dormire con lei era piacevole.

Era dolcissima: si concedeva senza slanci né varianti; non si faceva sesso, non la sentii mai veramente mia. Non prese mai l'iniziativa, neanche per un bacio: se ci provavo ci stava… solo ci stava!

Erano due lunghi mesi che viveva con me e mi prese la curiosità di sapere chi fosse, che faceva? Dove andava quando io ero via? Certo, usciva a far la spesa, e poi?

Presi tre giorni di ferie e la pedinai. Prendeva l'autobus e andava alla scuola Oberdan a guardare i bambini. Quando avemmo il primo rapporto, chiesi… e lei disse "vai tranquillo, non posso avere figli, sono sterile". Ama così tanto i bambini che viene a vedere i figli che non ha avuto? Ma perché lì? Dopotutto vicino casa mia c'era un'altra scuola!

Non trovai altro: su tre giorni andò due giorni alla scuola Oberdan. Un nipote? Credo che non avrei avuto risposta. Inutile chiedere.

Finché arrivò quel pomeriggio che l'avrei avuta e persa!

Ero sfinito, svuotato, arrivai alle cinque a casa ed ero uno straccio; sere così, quando ero solo, mi buttavo sul letto vestito e senza lavarmi. Mi accolse sulla porta e mi baciò.

"Sei stanco, si vede".

Entrai nella doccia, non avevo la forza di lavarmi, ma dovevo farlo. Lei mi stupì: mi seguì sotto la doccia, poi sul pavimento, infine sul letto; finalmente era mia!

L'avevo avuta con slancio, con gioia. Ero felice, nessuna stanchezza; mi sentivo un leone.

"Preparati" - le dissi. "Fatti bella, mi riposo un'ora poi si esce."

Mille pensieri e progetti mi ruotavano in mente: sarei passato a comprarle un anello, poi l'avrei portata nel miglior ristorante.

Uscii con lei. Sul viale mi diressi deciso verso la gioielleria.

Sulla porta usciva un uomo con una bambina.

La bimba urlò: "Mamma, mamma! Finalmente!" Le saltò al collo baciandola e bagnandola di lacrime.

Anche lei piangeva.

Quell'uomo restò fermo a 4-5 metri, muto; aveva un grosso cerotto sulla fronte.

Io ero scioccato.

"Mamma, ti abbiamo cercato tanto, sai. Mi sei mancata tanto, e anche a papà. Quella è andata via già da un mese e papà non dice più che era lei la mia mamma... sei tu la mia mamma! Solo tu! Sai, quando io piangevo lui mi sgridava quando c'era lei, ora piange con me! Ieri notte, sai, lui dormiva, io no: pensavo a te e l'ho svegliato e gli ho detto che ti rivolevo a casa. Ha detto che non sapeva dov'eri, non sapeva se lo volevi perdonare e se mai ti trovava! Poi ha picchiato la fronte sul pilastro della cucina si è fatto una bella ferita."

Poi la bambina mi vide.

"Lui chi è mamma?"

"Si è preso cura di me in questi mesi, un uomo d'oro."

"Sei alto, sei ?! La mamma è più bella di prima, grazie! Mi prendi in braccio, voglio darti un bacio. Papà ha comprato un anello da regalare a mamma per farsi perdonare. Grazie per averla riportata da noi!"

"Tu sei sua figlia?" - L'unica domanda che riuscii a fare.

"Certo, lo sono. Mi hanno adottata quattro anni fa…"

Il tir riparte piano, attraversa Via Oberdan, lasciando una famiglia felice. Il tir è triste, prosegue lento verso altre vie… altre storie…

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Vita da cane

C'era una volta un cane che viveva tutto felice presso una famiglia: lo trattavano bene, gli davano cibi ottimi, lo portavano a spasso e lo coccolavano tutti. Il cane voleva tanto bene ai suoi padroni, loro lo portavano dal parrucchiere per cani e lui era tanto bello; ai concorsi di bellezza arrivava sempre primo e i suoi padroni vinsero tanti trofei, coppe, medaglie, diplomi.
Passarono alcuni anni e il cane invecchiò, perse il suo bell'aspetto; i suoi padroni lo volevano abbandonare.
Si partì per la campagna, una trentina di chilometri; arrivati scesero e stettero lì per un po'. Al momento di partire lasciarono il cane a terra.
Il povero cane pensò: "mi hanno dimenticato" e corse dietro la macchina finché poté, abbaiando per farsi sentire, ma la perse.
Il cane, preoccupato che i suoi padroni lo avessero perso, piano piano prese a cercare la strada di casa e, cammina, cammina, dopo due giorni di stenti, stanco e affamato, vide di nuovo la sua casa. Contento raccolse le forze e si fece quei metri correndo felice; arrivò dietro la porta e si fece sentire, tutto felice, ma i suoi padroni non erano felici come lui e lo scacciarono. Lui scappò via ma appena richiusero la porta tornò dietro ad essa a guaire senza capire perché lo trattassero così.
Dopo averlo scacciato dieci, venti volte, infine il suo padrone lo chiamò, lo rimise in macchina, prese l'autostrada e, fatti tantissimi chilometri, lo lasciò in un posteggio, senza fargli capire che voleva abbandonarlo un'altra volta.
Il povero cane cercò di nuovo la via di casa, sempre pensando che fossero in pensiero con lui; camminò, camminò, schivando continuamente le macchine e i camion che sembravano volerlo travolgere a tutti i costi.
Ma il povero cane si perse, non trovò più la via del ritorno e vagò per giorni e giorni, mangiando rifiuti o addirittura non mangiando, in quell'autostrada. Finché una macchina lo investì e gli ruppe una gamba.
Il povero cane, stanco e ferito, lasciò l'autostrada e vagò ancora per giorni, per campagne e paesi, scacciato da tutti a legnate e pietrate, ma non trovò più la via di casa.
La sera si lasciava cadere dov'era e si trascinava appena.
Una di quelle sere cadde in un fossato; cercò disperatamente di uscire; poi, stanco, si lasciò cadere e si addormentò.
La notte fu svegliato da una pioggia gelida. Cercò con tutte le sue forze di uscire da quel fosso, ma le sue tre gambe scivolarono su quelle pareti e più provava, più scivolava: il fosso si riempì di acqua ed il povero cane, ormai convinto di dover morire, chiuse gli occhi...
Si risvegliò piano; sentì un tepore, una mano lo accarezzava, stava sognando, si fanno bei sogni prima di morire, pensò. Sentì una voce di bambina che chiamava: "Papà! si muove, si sta svegliando, vieni...".
"Ciao, cagnolino..."  Un'altra mano lo accarezzò...
Aprì completamente gli occhi: era su un divano, aveva la gamba ingessata, era pulito...
Aveva una bella bambina bionda accanto, un uomo e una donna intorno...
Dunque non era un sogno!
Era confuso, felice. Mosse la coda, sollevò la testa, cercò quella mano, la leccò...
"Sai", continuò la bambina, "ti ho trovato quasi morto, ti abbiamo fatto le flebo; sai, il veterinario ha detto che puoi farcela! Sono felice, sei il mio cane ora: ci vorremo bene, lo so...".

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Pinocchio - C'era una volta l'Aifrane

- Bia, mi racconti una favola come fanno i terrestri! Nel film che ho appena visto, il terrestre raccontava la favola del burattino, mi è piaciuta sai! 
- Dormi Ike, domani devo alzarmi presto per andare su Urano.
- Non ho sonno, raccontami una favola come fanno i terrestri con i loro bambini. 
- Dormi Ike, io ho sonno e non so favole. 
- Io non ho sonno e voglio che mi racconti una favola. 
- Smettila di fare i capricci o ti porto sul pianeta Chiap e ti lascio lì da solo. 
- Raccontami una favola. 
- Va bene, va bene, così capisci perché il pianeta Chiap è deserto; ti racconterò la favola dell'Aifrane. 
- Cos'è l'Aifrane? 
- L'Aifrane era un enorme animale che viveva sul nostro pianeta, aveva una gran testa e dei denti enormi, pesava circa 3000 KL, aveva le ali e poteva volare anche per 15 ore, era anfibio, viveva bene sia in acqua che in cielo; benché fosse armato di lunghi denti, artigli e speroni agli arti era erbivoro, molto intelligente e docile. 
Mio nonno mi raccontava che suo nonno ci giocava da bambino, era molto diffuso sul nostro pianeta, anzi erano si diceva gli antichi abitatori del pianeta e si dice che parlassero tutte le lingue dell'universo ci cedettero il loro pianeta per viverci, con gli anni non parlarono più, emettevano solo un lieve suono per comunicare fra loro. 
Come dicevo era molto diffuso sul pianeta ed era molto amato da tutti, veniva usato come animale di compagnia, dov'era possibile, dato che era alto due metri e lungo nove. Aveva bisogno di grandi spazi, con l'aumentare della popolazione e l'espandersi delle città, le campagne erano diminuite tanto, ma non era un problema perché l'Aifrane si cibava di alghe e di erbe marine. 
Molti altri animali che vivevano sul pianeta erano strettamente legati a loro, alcuni si cibavano dei loro escrementi mantenendo anche le città pulite ed altri si cibavano dei suoi parassiti; a rompere quell'armonia ci pensarono i nostri scienziati, eravamo in guerra con il popolo che abitava il pianeta Chiap. Stavamo avendo molte perdite e allora pensarono di sfruttare l'enorme mole e la forza dell'Aifrane che aveva una corazza durissima e potenziali enormi di offesa; ne portarono così un centinaio in dei laboratori, li trattarono con droghe e li cibarono con i corpi di prigionieri di Chiap.
Poi gli Aifrane carnivori vennero portati su Chiap e lanciati contro il nemico, la vittoria fu schiacciante, distrussero tutto ne mangiarono a centinaia, buttavano giù qualsiasi cosa pur di trovare cibo, poi vagavano nelle città, ormai padroni del pianeta, se qualche superstite cercava di uscire veniva subito sbranato. 
Ma i nostri scienziati non avevano previsto una cosa, l'avvicinarsi della stagione degli amori, come mossi da una molla gli Aifrane incominciarono ad accoppiarsi dappertutto ma le femmine su Chiap erano in minoranza e i maschi intrapresero fra loro un feroce combattimento che alcuni casi portò alla morte. Per natura gli Aifrane erano molto timidi e riservati, si accoppiavano in luoghi isolati o in mare, non lottavano mai per la femmina, i più giovani non si accoppiavano se non c'erano femmine disponibili. I maschi che non trovarono compagne su Chiap dopo brevi attacchi fra loro si alzarono in volo verso casa, facendo scoprire che erano in grado di volare per molti giorni e notti senza sosta; giunti sul pianeta affamati si cibarono di chiunque trovassero sul loro cammino, donne, bambini, poi si accoppiarono in modo feroce dappertutto e così fecero dopo un po' di esitazioni anche i loro simili, comunicarono fra loro e cominciarono a distruggere e a divorare chiunque; visto ciò i nostri capi si resero conto che avevano creato dei mostri o risvegliato la loro vera natura; si alzarono in volo i caccia e partì l'esercito, non c'erano alternative, non c'era scelta, li dovevano uccidere tutti. La guerra fu cruenta e terribile, durò una settimana, poi sembrava che forse eravamo vittoriosi, c'erano circa 22-23 Aifrane feriti sul pianeta e se ne contavano volare sulla città almeno altrettanti. Gli Aifrane erano alla fine se si pensa che erano circa sette o ottomila, anche noi abbiamo subito delle perdite, intere città vennero rase al suolo e furono almeno 228000 i morti.
All'alba si prevedeva l'attacco finale… invece si sentì una voce potente sul pianeta che diceva: "Noi vi abbiamo accolti sul nostro pianeta dandovi tutto, eravate zingari senza dimora, avete vissuto e vi siete moltiplicati in pace, ora per ringraziarci ci volete sterminare, siete traditori ingrati, torneremo ad essere i padroni della nostra terra e voi sarete ripagati a dovere".
Detto ciò lanciarono un urlo che fece tremare le case, poi gli Aifrane feriti si lanciarono in mare e gli altri volarono verso lo spazio sparendo per sempre.
- Quanto tempo fa?
- Circa 150 anni fa.
- E non li avete più trovati nemmeno in mare?
- No Ike, ma dormi adesso.
- Non sono più tornati da allora?
- No! Ma dormi adesso.
- Ma torneranno e ci divoreranno?
- No, spero di no.
- Non mi è piaciuta questa favola, è brutta e triste.
- Lo so, lo so, purtroppo le favole non sono tutte belle.
- Quelle terrestri sì.
- Dormi Ike, dormi, è tardi.
- Mi racconti quella del burattino terrestre?
- Domani, ora dormi.
- Va bene Bia, ma era brutta… brutta…

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Il coniglietto

C’era una volta un coniglietto che viveva in un bosco e vivere lì per lui non era di certo facile! Doveva scappare dalle volpi che volevano mangiarselo e dai gatti selvatici. Pure con i suoi simili non era facile vivere: i conigli più grossi lo picchiavano sempre e anche le lepri che mangiavano i germogli più teneri.
Il povero coniglietto iniziò così a pregare il Signore di aiutarlo e, prega oggi, prega domani, il Signore gli apparve e gli chiese:

-         ”Cosa vuoi, coniglietto ?”.

-         “Voglio parlare e fare i versi di tutti gli animali del bosco !”.

-         “Così sia !”, disse il Signore.

Il coniglietto si mise subito all’opera sfruttando le sue nuove qualità.

Quando sentiva avvicinarsi le volpi e le linci e i gatti selvatici, urlava frasi minacciose con voce umana e, benché egli fosse celato tra i cespugli e loro non vedessero esservi alcun umano, fuggivano via impauriti.  
Sorte migliore non toccò ai conigli! Facendo il verso della volpe, il coniglietto li faceva fuggire via. Poi si metteva davanti alle loro tane a latrare e non li faceva uscire. Anche le grossi lepri ben presto divennero sue vittime: le metteva in fuga e mangiava i loro germogli migliori. 
Il coniglietto ora si divertiva un sacco! allegro e spensierato correva su e giù per il bosco imitando ora l’uno ora l’altro e nulla sembrava fargli più paura: si sentiva il padrone del bosco. Finché un giorno, mentre inseguiva un leprotto correndo fra gli arbusti, restò prigioniero in un cappio. 
Ormai pensava che per lui fosse la fine e a nulla valsero i suoi sforzi per uscire da lì. Per una notte e un giorno restò intrappolato. Finché dei passi umani si fecero sempre più vicini e un brutto omone con la barba si fece a lui vicino.

-         “Bene”- disse l’uomo – “è andata bene ! Oggi per cena mangerò coniglio !”.

-         “No! Ti prego, non mangiarmi !”.

L’uomo, per un attimo, restò stupito e perplesso. Poi chiese:

-         “Sei tu che parli, coniglio ?”.

-         “Si, sono io! Non mangiarmi !”.

-         “Mmm … un coniglio che parla! Magari sarai ancora più buono dei tuoi simili !”.

-         “Non mangiarmi! Io posso aiutarti “.

-         “Aiutarmi? E come ?”.

-         “Vedi, se tu mi prometti di non mangiarmi, io ti dirò dove hanno le tane le lepri che sono molto più grosse di me!”.

-         “Bene – disse l’uomo – si può fare!”.

Mise tanti cappi, poi prese e si mangiò tutte le lepri del bosco.

Appena finì torno dal coniglietto:

-         “Non ci sono più lepri! Ho fame! Devo mangiare te, adesso !”.

-         “Ma tu avevi promesso di non mangiarmi se io ti aiutavo !”.

-         “Ma io adesso ho fame e il mio stomaco reclama cibo !”.

-         “Puoi mangiarti una gallina, ne hai tante !”.

-         “Sono poche, alcune le hanno mangiate le volpi e quelle rimaste devono farmi le uova. Devo mangiare te !”.

-         “Aspetta! Io so dove le volpi hanno le tane! Le ucciderai e ti prenderai le tue galline !”.

L’uomo uccise tutte le volpi e ne fece pellicce. Poi tornò dal coniglietto e gli disse:

-         “Ora devo mangiarti veramente !”.

-         “Là no”– disse il coniglietto – “possiamo ancora fare un patto. Tu mi prometti di lasciarmi andare ed io ti dico dove puoi trovare tutti i conigli del bosco !”.

-         “Bene”– disse l’uomo – “prometto solennemente che ti lascerò andare !”.

Avute le necessarie istruzioni per trovare le tane dei conigli, l’omone vi si recò, catturò e uccise tutti i conigli e poi se li mangiò! Dopo alcuni giorni, tornò dal suo prigioniero e gli disse:

-         “Adesso devo proprio mangiare te !”.

-         “Ma non puoi! Tu mi avevi promesso solennemente che non mi avresti mangiato !”.

-         “E’ vero! Ma io non ti ho detto che non mantengo mai le mie promesse !”.  

E detto ciò uccise e mangiò anche lui !

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Un'avventura fantastica

Candido era un tipo tranquillo e solitario e aveva 22 anni ed era un po’ imbranato, e a causa della sua timidezza non aveva una ragazza. Era l’amico degli amici, solo quando serviva a tappare qualche buco lo chiamavano. Anche quella volta gli sembrava di essere stato invitato come tappa buco per quella vacanza, perché Alfredo aveva avuto un incidente e si era rotto una gamba. Elia era lì che insisteva "Vieni a Cumayer ti divertirai, e c’è anche Marzia che è la ragazza di Alfredo, potresti fare colpo su di lei, una vamp con tutte le curve a posto".
Candido non voleva, poi non sapeva nulla di neve né di sci.
"Non ho l’abbigliamento adatto e soprattutto non voglio venire, lasciami stare".
Gli aveva risposto, ma Elia cercava ancora di convincerlo "Dai fallo per me, è già tutto pagato, organizzato da mesi. Io finirei col trovarmi con due donne e non combinerei niente con nessuna delle due". L’amico continuava ad insistere "Dai vieni, sarà piacevole, e poi la Valle d’Aosta è bellissima in questa stagione".
Malgrado suo, Candido si trovò due giorni prima della partenza a conoscere Marzia, davvero una vamp, una di quelle mangia uomini che si vedono al cinema. Non furono ancora presentati che già capì che non era il suo tipo. Alla presentazione lei esclamò "ah, sei tu Candido…" E lui le rispose con tono malinconico "Si sono io, delusa?" A questa domanda lei rispose sorridendo "Nooo! È un vero piacere", "Il piacere è tutto mio".
Il viaggio in macchina fu lungo e tranquillo. Si presenta agli occhi di Candido un paesaggio bello e selvaggio della Valle d’Aosta con boschi e campagne innevate, con ruscelli e alberi e le case cariche di neve sul tetto che sembravano come coperte bianche.
Arrivati all’hotel EDELWEISS, un luogo carino e accogliente con un buon personale pieno i gentilezza infinita, si presentò loro il primo problema al quale nessuno di loro aveva pensato: le due coppie a sua tempo avevano affittato due camere matrimoniali, ma ora Marzia non volle certo dividere la camera con Candido, d’altronde trovare una camera singola era impossibile perché tutto era stato prenotato da mesi. La soluzione fu ovvia, le due ragazze dormirono insieme con disappunto da parte di Elia e della sua ragazza, ma Marzia fu irremovibile.

La sera andarono a cenare al ristorante con un silenzio che sapeva di nervosismo. Allora Candido propose a Marzia di andare a prendere qualcosa in qualche bar per consentire all’altra coppia di restare un po’ da sola con un po’ di intimità e nello stesso tempo per conoscersi meglio.

La ragazza acconsentì. Entrarono al Caffè della Porta, un elegante pub con tovaglie di pizzo a tutti i tavoli. Dopo essersi seduti vicino al caratteristico camino di pietra ed ordinando un caffè ed un amaro Candido gli rivolse nuovamente la domanda "Non ti sono davvero simpatico?" E lei rispose "Non è questo, è che sognavo da parecchio tempo questa vacanza con Alfredo, avremmo avuto modo di approfondire il nostro rapporto che stava crescendo bene". "È il tuo fidanzato?" le chiese Candido. "Come sei arretrato, fidanzato è una parola d’altri tempi, e poi il fidanzamento è l’anticamera del matrimonio, cose ormai superate" gli rispose ridendo e Candido approfondì "Non per me, io sono un po’ all’antica. Il rapporto con una donna lo definisco così da sempre". E Marzia "Questione di mentalità, non è più così ormai da un pezzo, anche il rapporto fisico è legato ad un concetto di conoscenza, di capirsi soprattutto sul piano sessuale. Sono tramontati i tempi dell’amore platonico e della verginità da portare in dono allo sposo". E Candido "Io sono sempre convinto che il fidanzamento e l’amore conducono al matrimonio, ma ci si sposa ormai sempre di meno, ora è di moda il convivere. Bhè, la convivenza può essere un vantaggio per l’uomo, che quando si è stufato può scaricarla quando vuole". A questa deduzione Marzia sentì una certa antipatia alla risposta "Il solito discorso che fanno quelli come te, ma anche noi donne possiamo scaricarvi come dici tu!"

Con un gesto maldestro Candido le rovesciò l’amaro sulla tovaglia di pizzo, lei arrossì mentre il cameriere gentilissimo disse "Non si preoccupi le cambiamo parecchie volte al giorno, non può immaginare quante volte capita".

Candido allora imbarazzato , si scusò, pagò ed uscirono dal locale, mentre Marzia lo rimproverò dicendo che poteva mettere più attenzione e che non aveva fatto bella figura. Candido rimase in silenzio per tutto il tragitto fino ad arrivare all’hotel.

La notte Candido la passò nella stanza col suo amico ed anche lui sembrò fargli una colpa per quel che era successo. Non era così che Elia sognava la sua vacanza, non voleva passare la notte con l’amico e il fatto che Marzia non lo ha accettato era un grosso problema. Entrambi erano seccati e i loro nervi erano molto tesi. Improvvisamente Candido si rivolse al suo compagno "Ascoltami bene, io non volevo venirci, sei stato tu che hai insistito. Ora sono qui e non vorrei esserci, non è colpa mia se le cose vanno male", "Stai zitto, non parlare". Il giorno dopo sulla pista di sci fu il colpo finale: Candido non sapeva sciare, non aveva mai provato ed in abbigliamento sciistico si sentiva impacciato e fuori posto. Allora decise di lasciare gli amici e ritornò all’hotel, dove si cambiò ed uscì nuovamente avviandosi in libreria per comprare un libro da leggere e poi dirigersi al Caffè della Porta dove si sedette e rimase lì tutta la giornata.

Anche i suoi amici non rientrarono all’hotel, sicuramente avevano pranzato dalle parti delle piste da sci.

Verso sera il bar dove si trovava Candido si riempì a tal punto da non rimanere nemmeno un tavolo libero. Ad un certo punto vide spuntare dalla porta d’ingresso una bellissima ragazza in pelliccia blu che, infreddolita, si diresse verso il camino per scaldarsi. Fu lì che Candido, colpito dalla sua bellezza , di scatto si alzò e la invitò a prendere un caffè. Lei si volse, lo guardò e rispose "Si, grazie!". Lo seguì al tavolo, prima di sedersi si tolse la pelliccia. Candido la ammirò nel suo vestiario, aveva una tuta nera molto attillata, al collo un medaglione simboleggiando una specie di numero 69, ed una cintura metallica che lampeggiava al centro con lo stesso simbolo del medaglione ed emanava una luce intermittente. "Cosa prendi? Io sono Candido!" si presentò e le porse la mano, lei sorrise scambiando la stretta di mano. Nello stringere la mano un lieve tremore attraversò il corpo di Candido che le ripropose la stessa domanda "Cosa prendi?". "un wiski" rispose con voce ammaliante. Consumarono in silenzio, dopo di che lei si alzo ringraziandolo e lo baciò ad una guancia, mentre lui le chiese se voleva rivederlo. "Ci rivedremo, ci rivedremo presto… Ciao" e si allontanò con passo grazioso e vellutato.

Candido non credeva alle sue orecchie, quella Dea aveva accettato il suo invito.

Rientrato all’hotel, mentre stava per entrare in camera, sentì una discussione animata fra Elia e Marzia che lo accusava di essere stato lui a rovinare la vacanza portandosi appresso un ragazzo non tanto carino ma anzi più somigliante ad una zavorra insignificante.

Essere definito zavorra insignificante non era il massimo delle sue aspirazioni, in quell’attimo ebbe due possibilità: entrare e mandarli al diavolo o far finta di nulla e ritornare più tardi.

D’istinto decise la prima possibilità: Entrò dicendo "Buona sera amici, scusate il disturbo, la zavorra è entrata a raccogliere le sue cose".

Elia disse di non andar via, ma Candido ormai avviandosi verso la porta gli rispose che non sarebbe più tornato "Non è quello che volevate, liberarvi di me e vi accontento".

Uscì infuriato ed amareggiato, una lacrima scese dai suoi occhi, non era mai stato così umiliato.

Una volta in strada si rese subito conto che non sapeva dove andare, allora pensò di ritornare al Caffè della Porta e chiedere una mano d’aiuto al cameriere, ma quella sera non c’era nemmeno una camera libera, nemmeno a pagarla a peso d’oro. Dietro di lui sentì la presenza di una persona: era lei, la donna bellissima con la pelliccia blu "Vieni con me, è un po’ che ti aspetto". E sotto gli occhi ammirati di tutti uscì assieme a quella bellissima donna. In strada l’attendeva un fuoristrada enorme, dentro dotato di cruscotto luminoso, con strumenti strani, interni morbidissimi, sul volante lo stesso simbolo del medaglione. Allora Candido gli chiese se era un modello giapponese. "Si, uscito da poco!" diede quella risposta mentre era indaffarata ad aprire lo sportello. Guidarono per ore attraverso strade innevate e boschi. Poi arrivarono presso una baita molto calda ed accogliente. Fecero l’amore senza che nessuno dei due parlasse. Al mattino si svegliò per primo Candido come da un sogno, lei era distesa accanto a lui che la guardava e notò che appena sotto i seni vi era lo stesso disegno del 69, la tocco con un dito per vedere se si trattava di un tatuaggio: era un marchio.

Lei si svegliò e gli disse di tornare a Curmayer per sciare, ma Candido rispose di no in quanto non sapeva sciare. Lei insistette dicendo che non era difficile, bastava mettersi gli sci ai piedi, il tutto veniva da solo.

Fornito di abbigliamento variopinto si diressero verso il fuoristrada. Candido notò che anche nella targa della macchina vi era una X 69, il simbolo del medaglione.

Sulla pista di sci fecero delle sciate spettacolari. Candido si ritrovò a fare cose da campione senza averle mai fatte. Si fermarono tutti ad ammirarli, compresi gli amici che rimasero di stucco vedendolo così spigliato ed in compagnia di quella bellissima donna.

In serata rientrarono al loro nido d’amore facendo nuovamente l’amore. Dopo Candido chiese a quella donna da dove veniva, se era italiana e come si chiamava.

Lei rispose "Sono straniera, vengo da molto lontano, dalla costellazione del cancro" E Candido "Come? non ho capito!" "Dalla costellazione del cancro" "Dai, non scherzare, da dove vieni?" Candido non poteva mai credere a quelle risposte. "Non sto scherzando, sono qui in ferie, me le merito, ho lavorato tanto, è la vacanza premio. Il mio nome è Tamaya e non farmi più domande… vieni, facciamo di nuovo l’amore". Candido non si fece pregare un’altra volta. Il mattino dopo dirigendosi verso Curmayer Candido notò qualcosa di strano nella targa della macchina, era convinto che il primo numero fosse stato 3 e non 4. Comunque, ritornarono a sciare come il giorno prima facendosi nuovamente ammirare. In quell’occasione presentò Tamaya all’amico Elia con le ragazze. Elia chiese dove erano stabiliti e fu lì che decisero di invitarli a cena.

Quella sera Tamaya fu meravigliosa, Elia gli chiese dove Candido l’aveva incontrata, ma lei rispose che fu lei che incontrò lui.

Marzia notò il medaglione che aveva al collo e le chiese "È bello, che sei del cancro?"

"Si, vengo dalla costellazione del cancro, questo è il simbolo del cancro e del mio popolo". "Spiritosa davvero, davvero spiritosa" Sorridendo disse Marzia che le chiese il suo nome. "Il mio nome è Tamaya". A quel nome Marzia di scatto disse "Ma è il nome dell’albero della fertilità" "Si, si un alberello della famiglia delle begonie, fa dei fiorellini rosa e si chiama appunto Tamaya".

Dopo Marzia chiese come aveva fatto ad imparare a sciare in così poco tempo e Tamaya le rispose che non era difficile, bastava mettersi gli sci ai piedi e avrebbero fatto tutto loro.

Marzia allora si alzò di scatto dicendo che non avrebbe permesso a Tamaya di prenderla in giro. Allora Candido esclamò "No, no… andiamo via è meglio".

Prima di lasciarli Elia chiese all’amico se sarebbe rientrato con loro, ma Tamaya li precedette dicendo che Candido sarebbe partito dopodomani in quanto anche lei sarebbe rientrata da quella vacanza.

Candido e Tamaya girarono per la Valle d’Aosta, Cervinia ecc, visitarono castelli e torri. Candido rientrando notò per l’ennesima volta che il primo numero della targa era diventato un 5.

Nella baita rifecero l’amore, dopo le disse che dovevano andare "Ti accompagno a casa". Candido guardò l’orologio che faceva le 23:40 e le chiese il perché di questa partenza improvvisa. Tamaya lo guardò negl’occhi "Devo rientrare, devo tornare al mio lavoro". Appena partiti Candido le disse che non voleva perderla anzi le chiese di sposarlo. La ragazza rispose "Ascolta Candido, io devo tornare a casa ed anche tu, non possiamo continuare così, è solo un bel sogno, un’avventura fantastica che entrambi abbiamo vissuto, ma è finita. Adesso dormi che il viaggio è lungo".

Arrivati a destinazione Candido fu svegliato "Scendi che sei arrivato, io devo andare". Candido la supplicò nuovamente di non andare via, ma Tamaya "Nulla è più possibile, devo andare, è finita, è stato un bel sogno". Allora mentre lui scese dalla macchina la baciò per l’ultima volta, dopo restò per strada fermo e la vide allontanare. Lì notò che la targa stava cambiando il numero 4 in 5. Guardò l’orologio, erano le 24; in quell’istante del giorno 5 gennaio 1982, a poche centinaio di metri quel fuoristrada si trasformò in una specie di oggetto volante emettendo un sibilo acutissimo ed un lampo fece scomparire il tutto verso il celo stellato.

I genitori di Candido  si affacciarono alla finestra svegliati da quel rumore, dopo videro il figlio e lo abbracciarono mentre chiedevano spiegazione a lui di cosa era successo.

E Candido "Ma dai papà credi agli alieni? Alla tua età! Piuttosto andiamo a dormire che io sono piuttosto stanco".

Ma Candido quella notte non dormì, dunque aveva conosciuto un’aliena. E come arrivò dalla Valle d’Aosta a Messina in meno di mezzora? Con tutte quelle domande Candido decise di tornare in Valle d’Aosta, ma della baita non vi era nemmeno una traccia, non era mai esistita.

Candido amò quella creatura fantastica per lungo tempo, tornando ogni anno per le vacanze in quei posti dove poteva ricordare i bei tempi trascorsi con lei.

Ci vollero anni per dimenticare Tamaya e per capire che fu solo un’avventura fantastica.

Incontrò Alessandra, una ragazza meravigliosa di Chamois. Da lei ebbe due bambini, però quel ricordo tornava sempre in lui e ugni anno in vacanza nella fantastica e meravigliosa Valle d’Aosta portava tutta la famiglia amandola come se fosse parte della sua terra.

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L'archivio dei giorni

Era trascorso qualche anno da quando Giorgio aveva comprato quell’immensa villa con quel bel parco di mimose e rose, nel Comune di Novara di Sicilia.
Quella mattina vide un losco individuo scavacare il cancello con una pila di libri, li mise su un furgone e scappò via.
Giorgio lo inseguì in fretta e furia con la sua moto truccata e riuscì a raggiungerlo e ad entrare in quell’immenso palazzo scintillante nel quale era entrato, quel brutto ceffo, i libri stava riponendoli in uno scaffale di cristallo, Giorgio lo aggredì: quelli sono i miei libri, ladro!
Certo sono i tuoi libri, rispose pacatamente, vedi c’è il tuo nome e la data sopra, li archivio per te, leggi là in alto cosa c’è scritto.
Giorgio alzò gli occhi e con sua grande sorpresa lesse:
L’ARCHIVIO DEI GIORNI.
Incuriosito prese un libro che portava la data 8 febbraio 1980; era il giorno che aveva aiutato i bambini delle missioni ha ritrovare il sorriso, lo ripose, ne prese un altro, lesse ancora di quando regalò al fratello Pasquale la sua parte di eredità, la casa nel parco dei Nebrodi nel posto più bello senza curarsi che valeva tanto; posò anche quello e ne scelse un altro, con gioia immensa si rese conto che erano i giorni delle sue buone azioni e fiducioso ne prese un altro ancora.
Era datato 7 maggio 1997, ma con rammarico stavolta lesse di quando truffò l’assicurazione; deluso lo sistemò e prese quello datato 8 gennaio 2000, profondamente amareggiato constatò che si trattava l’imbroglio ai danni del suo amico Mario, al quale disse di non averla giocata la schedina e si tenne tutta la vincita. Prese quello con data 27 agosto 2001. Lo lesse, fu il giorno che parlò male di suo padre con lo zio, anzi accusò lui di un suo enorme danno procuratogli, ben sapendo che lo zio non avrebbe mai affrontato e accusato il fratello.
Li archivio per lei, riprese a questo punto quell’individuo, finché “LUI “ li leggerà!
Sentendo tale frase Giorgio per poco non si sentì male, un brivido salì veloce lungo la schiena, sudava freddo, tremante, guardò quell’uomo sempre più intimorito e con voce supplichevole gli propose di ridargli indietro i giorni vissuti male per farglieli rivivere meglio e lui in cambio gli avrebbe elargito enormi ricchezze.
Ma l’uomo, con fare deciso, gli disse: anche questo sarà scritto!
Alzò la mano e pose i sigilli sui giorni in questione, dicendogli: ormai non c’è niente che lei possa fare, questo è il passato!
Svanì e con lui il suo palazzo e tutti i libri…

E il sole sorgeva…

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Perché, Flavia?

Il sole penetra dalle imposte svegliandola.

L’orologio sul muro segna le sette e venti.

E’ un bel mattino di marzo. Il profumo della terra bagnata penetra dalla finestra appena aperta e un meraviglioso arcobaleno, fra nuvole e macchie blu, porta la quiete dopo la tempesta.

Lampi, tuoni, grandine hanno martellato l’ospedale tutta la note.

Lei, in quel letto, sembra dormire… o forse… è morta?

“No!" - sospira tra sé e sé Flavia -  "per fortuna è ancora viva!”.

In quel momento entrano i dottori parlando a voce alta.

“Silenzio, per favore, sta dormendo”, supplica la ragazza.

“Come ha passato la notte?”.

“Si è lamentata fino alle due, poi… poi… io mi sono addormentata sulla sedia. Mi ha svegliata il sole…”.

Il medico capisce il suo disagio: “Non preoccuparti, è normale! Esci un po’ adesso! Va a prenderti qualcosa al bar! Qua ci pensiamo noi!”.

La fanno uscire dalla stanza quasi a forza.

Nel corridoio c’è lui: è rimasto lì tutta la notte. La vede e scatta in piedi:
“Come sta tua madre?”.

“Dorme”.

“Come ha passato la notte?”.

“Male, si lamentava…”.

“Che speranze ci sono?”.

“Chiedilo ai dottori!”.

“Flavia… la stiamo perdendo, vero?”.

Flavia si gira di scatto, aggressiva come sempre. Chissà cosa vorrebbe urlargli contro.

Dionigi ha gli occhi rossi. Forse ha pianto tutta la notte… Una lacrima scende dal suo viso rugoso.

Flavia lo guarda, forse, per la prima volta, lo guarda davvero! Anche lui sta soffrendo, anche lui piange… Lei invece non riesce più a piangere! Quando morì suo padre, pianse così tanto… che ora proprio non riesce più a versare nemmeno una lacrima. Morì dieci anni addietro, fu una scarica elettrica a portarlo via da lei! Poi è arrivato Lui, l’usurpatore che ha preso il posto del giovane padre accanto a sua madre! Ma perché con quel vecchio?

Quel “ perché   se lo è portato dentro per anni. Poi, a quindici anni, ha trovato il coraggio di chiedere spiegazioni alla mamma: “Ma perché lui, mamma? Perché proprio lui?”.

Sei abbastanza grande per capirlo da te, Flavia! Quando è morto tuo padre, io avevo trent’anni e avevo anche una bambina di nove anni… Capisci bene che per me non c’era alcuna prospettiva futura. Tuo padre ci ha lasciate in mezzo a stenti, disagi e debiti e poi Dionigi è così gentile, lo è sempre stato e siccome vivevamo a casa sua prese a corteggiarmi, mi permise, ci permise di restare lì, nella sua abitazione, per anni dopo la morte di tuo padre e senza mai pretendere nulla, né denaro per l’affitto né altro. Un giorno mi propose di sposarlo ed io accettai!”.

“ Ma tu non l’amavi! E lui aveva trentadue anni più di te! E poi papà era morto da appena qualche anno…”.

“ No! E’ vero! Io non lo amavo ma non l’ ho mai ingannato! Lui ha sempre saputo la verità ed è riuscito ad accettarla. Ora gli sono affezionata, gli voglio bene. Non ci fa mancare nulla, premuroso, affettuoso con te… Anzi, visto che ne parliamo, vorrei tanto che lo fossi anche tu nei suoi confronti! A volte lo tratti così male!”.

Ma, da quel giorno, Flavia iniziò ad odiarlo ancora di più e prese ad odiare la madre, convinta com’era che lui l’avesse” Comprata” con i suoi soldi!

Ad interrompere i suoi cupi pensieri, la voce dell’uomo: "Flavia, andiamo al bar a prenderci qualcosa? Devi fare ancora colazione!”

“ Vacci da solo al bar e stammi lontano!”.

“Perché, Flavia?, ha dunque anche lui un “perché” che lo tormenta dentro! Perché, Flavia, mi odi così tanto? Ho sempre sentito affetto per te e tu non mi hai mai permesso di dimostrartelo! Avrei voluto essere un vero padre per te… tu non puoi capire, Flavia, ma io ti voglio bene come se tu fossi veramente mia figlia e amo tanto tua madre!”.

“Io non voglio il tuo affetto! Tu non sei mio padre e non lo sarai mai!”.

“Io non ho mai voluto essere quello che non sono; non ho mai voluto prendere il posto di tuo padre nel tuo cuore, ma esserti amico, solo questo! Ma tu mi hai sempre respinto, tu mi hai sempre tenuto a distanza facendo soffrire anche tua madre. Ed ora lei è lì che sta morendo! Lei ci lascerà! Resteremo soli!”.

Ora due grossi lacrimoni gli solcano il viso.

Ma lei continua ad essere dura nei suoi confronti: “Io non vivrò con te. Se lei dovesse morire, tu devi sparire oppure andrò via io!”.

“ Hai diciannove anni, sei maggiorenne, tutti i miei averi sono tuoi: potrai avere tutto ciò che vuoi”.

“ Su questo punto hai perfettamente ragione! I tuoi averi mi spettano di diritto: mia madre se li è guadagnati tutti vivendoti accanto e permettendoti di toccarla, di possederla…”.

Dionigi diviene pallido, i suoi occhi si chiudono sul viso, un ghigno di dolore piega la sua bocca, cade sulla sedia come un animale ferito, la testa fra le mani… lei sprezzante prosegue verso il bar. Ma quel caffè le lascia l’amaro in bocca. Ora si pente, sa di essere stata troppo perfida, sa di aver ferito quell’uomo…

Ritorna sui suoi passi, pensando che anche la madre sarebbe rimasta delusa e ferita dalle sue parole nei confronti di Dionigi.

Quando la ragazza torna, lui è ancora lì che singhiozza e lei prova una violenta fitta al cuore e un nodo alla gola. Vorrebbe scusarsi ma non vi riesce.

Al rumore dei suoi passi, lui solleva il capo e prende a fissarla.

I due si fissano in silenzio.

Nel contempo arriva il dottore che li distoglie informandoli che la donna è appena spirata. Si precipitano entrambi al capezzale.

Flavia rimane impietrita, i suoi occhi non riescono a versare neppure una lacrima.

Dionigi invece piange senza ritegno: doveva proprio amarla molto…

All’improvviso l’uomo emette un grido e cade per terra quasi privo di sensi. Flavia è la prima a soccorrerlo e lui le sussurra: “ Davvero pensavi ciò che hai detto poco fa? Tua madre si è sacrificata a me…”.

Flavia scoppia a piangere: "Ho mentito! Mia madre ti voleva bene e pure io, anche se non ho mai avuto il coraggio di dirtelo. Non morire anche tu, adesso, ti prego!”.

Il viso di Dionigi si illumina di un dolce sorriso, la sua mano le accarezza i capelli, poi i suoi occhi si chiudono per sempre: il suo cuore non ha retto il dolore!
Flavia adesso piange; Flavia adesso è sola veramente!

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Matilde, la pazza

A quel tempo avevo messo gli occhi su Matilde.

Era molto fine, aveva la pelle bianca che restava tale anche sotto il sole cocente d’agosto; avevo proprio deciso, l’avrei sposata. Era balbuziente, albina, ma io ormai l’amavo, n’ero sicuro. Dissi a papà che volevo sposarla, sempre che lei lo volesse, poiché solo io sapevo d’amarla. Papà si alzò, posò il secchio con il latte appena munto e disse: ‹‹Hai trent’anni e da un anno a questa parte io e tua madre aspettavamo che ti decidessi a scegliere qualche nuora per noi. Ma non lei!››

‹‹Perché?›› dissi.

‹‹Non è normale poverina! Innanzitutto è albina e come se non bastasse non riesce a parlare in modo chiaro; poi non è balbuziente come tanti altri che conosco, che magari impuntano su qualche vocale, lei non sa proprio parlare.››

‹‹Secondo te cosa dovrebbe fare una come lei, buttarsi nel fiume?››

‹‹No, ma perché la devi sposare proprio tu, non può farlo qualcun altro?››

Mamma fu ancora più cruda:‹‹ Quella non è normale, ma non perché non parla bene o perché è albina, non si interessa di niente del paese, lavora come un uomo, non si comporta come una donna, insomma non fa per te! ››

In effetti alcune cose in lei erano insolite. Innanzitutto non usciva che per lavorare, non veniva mai alle feste del paese, né ai matrimoni; era lì da tre lunghi anni e tanti amici miei che lavoravano nei campi, notavano alcune sue stramberie. Non guardava nessuno, parlava male e poco, ma a me non importava.

Certo all’epoca non sapevo a chi e a che cosa andassi incontro, a quei tempi certe cose non esistevano nella mente di nessuno, neanche nella più fervida immaginazione! Ma io avevo deciso e come si usava allora, era il 1924, andai a parlare con gli zii della ragazza.

Il signor Scaglione era un uomo cordiale, mi fece accomodare subito dentro e mi mise davanti del pane, del salame e una bottiglia di vino. ‹‹Prendi un boccone e bevi un bicchiere di vino.››

Non accettare sarebbe stata un’offesa, così tagliai lentamente il salame e un pezzo di pane. Mi guardai intorno. Matilde era davanti alla finestra, mentre la zia trafficava col fuoco e le pentole di terracotta, un odore di fagioli si spandeva per la stanza.

‹‹A cosa dobbiamo la tua visita?›› disse il signor Scaglione.
Ad un tratto la moglie prese dalla quartara dietro la porta un boccale di acqua e attraversando la stanza, aggiunse dell’acqua ai fagioli, forse asciugatasi in fretta.

Osservai Matilde che intanto guardava il fuoco come fosse assente e senza distogliere lo sguardo da lei, come per vedere che effetto le avrebbe fatto, dissi tutto d’un fiato: ‹‹Voglio chiedervi la mano di Matilde.››

Lei non si mosse, anche udendo le mie parole restò sempre assente. Alla signora invece cadde la brocca dalle mani e urlò che più non si poteva. Matilde allora senza guardarmi, si chinò e raccolse i cocci da terra. Il signor Scaglione intanto era diventato pallido.

Io al contrario continuai a parlare: ‹‹Voi tre anni fa’ portaste qui Matilde dicendo che era figlia di un vostro fratello morto; visto che non ha più i genitori e che voi siete i parenti più prossimi, vi chiedo di potermi fidanzare con lei e di permettermi di frequentarla.››

Il signor Scaglione rispose: ‹‹Non se ne parla proprio, non può essere.›› Mi disse anche di uscire fuori e di non tornare più. 

Fremevo di rabbia, così tornai a casa e informai i miei genitori dell’accaduto. Il loro atteggiamento mi stupì molto.

‹‹Come?! Ti hanno detto no?›› Papà si alzò e disse: ‹‹Vieni andiamo lì.››

Tornai indietro seguendo papà che mi precedeva con passo spedito. 

Giunti sul luogo, bussò alla porta con vigore e quando Scaglione gli aprì, mio padre gli disse: ‹‹Cos’hai contro mio figlio? Perché gli hai detto di no?›› 

‹‹ Salvatore entra, entra che ti spiego›› disse lui. Matilde non c’era.

Mio padre allora riprese: ‹‹Cos’è che non va in mio figlio?›› 

‹‹Salvatore non ho nulla contro tuo figlio, forse l’ho trattato un po’ bruscamente ma in lui non c’è niente che non va. Al contrario è mia nipote che non fa per lui!››

‹‹Ma perché?›› intervenni io ‹‹forse non parla bene, ma per me non è importante.››

Scaglione disse: ‹‹Lei non è… non è normale, è pazza ecco, è malata di mente.››

‹‹Tommaso andiamo a casa›› disse mio padre. 

Non ero certo deciso ad arrendermi, avrei avuto modo di vederla, di parlarle e così feci tre giorni dopo. Matilde spaccava legna ininterrottamente da almeno due ore, prendeva i ceppi pesanti come fossero fuscelli e non sudava, i suoi gesti erano diventati meccanici. Aspettai che i signori Scaglione andassero a mungere le capre e non appena il campo fu libero, con un balzo fui dietro Matilde e la chiamai. Lei si voltò lentamente e mi fissò, il suo sguardo era piuttosto strano.

‹‹Ascolta›› le dissi ‹‹hai capito che voglio sposarti?››

Sul suo volto non traspariva alcuna emozione: ‹‹Spo…sa…rmi›› disse, dopodiché si voltò e continuò a tagliare legna.

D’un tratto mi misi tra lei e il ceppo da tagliare e le dissi: ‹‹Esigo una risposta!››

Lei alzò lentamente l’ascia e vibrò un colpo micidiale, metà di quel ceppo avrei potuto essere io se non mi fossi scansato: ‹‹Questa è veramente pazza›› pensai, Matilde rialzò l’ascia e spaccò un altro ceppo, alcuni pezzi mi colpirono ad una gamba. 

‹‹Ora basta›› dissi, sempre più deciso mi rimisi di fronte a lei e cercai di fermarla. Le presi le braccia che erano come d’acciaio, involontariamente le allungai una mano sul seno, sembrava una pietra, era simile a quello di una statua di marmo. Non avevo toccato molti seni in vita mia, ma quei pochi che avevo sfiorato erano caldi, morbidi. Nella colluttazione, che durò pochi attimi, mi ritrovai sbattuto a terra con la testa fra le sue gambe, d’istinto alzai gli occhi e quello che vidi mi inorridì. Guardai nuovamente, non era una allucinazione e così scappai a gambe levate.

Passai dei giorni e delle notti terribili, rischiai di impazzire, dovevo dirlo a qualcuno ma non certo ai miei genitori. Oggi non sarei così sconvolto e impaurito, ma nel 1924 eravamo all’oscuro di tante cose e Matilde rappresentava la stranezza in persona. A quei tempi non sapevo cos’era o forse ero io a non essere normale, ad avere le visioni, dovevo trovare qualcuno che mi aiutasse a capire, a cui dire di quella cosa. Non avevo dei veri amici nella mia cerchia di conoscenze, comunque decisi che lo avrei chiesto all’unico istruito che conoscevo. 

Mi controllò i battiti cardiaci, i riflessi, gli occhi. ‹‹Sei normale›› disse, ‹‹e non potevi inventarne una di questa portata, deve essere vero ma non mi spiego che cosa può essere. Non dirlo a nessuno, faremo degli altri controlli, indagheremo››. 

Otto giorni dopo controllammo gli appunti presi: non mangia in pubblico, non beve, non si allontana mai dai campi per andare a fare i bisogni come fanno tutti. Ha una forza fuori dal comune e una resistenza da mulo, non dice mai di essere stanca; nessuno in quegli anni si ricorda che si sia mai fatta un graffio, anzi zio Carmelo una volta mentre potava un albero, le buttò addosso un grosso ramo e lei non si fece niente, quel ramo avrebbe potuto uccidere chiunque. Non ha amici, amiche, mai un fidanzato (anche perché forse ero l’unico che la trovasse attraente). Dovevamo trovare qualcosa di valido prima di passare all’attacco, oltretutto il mio amico quasi dottore Beniamino Eriberto, pace all’anima sua, voleva e doveva vedere con i suoi occhi. Attendemmo il momento propizio. Matilde era al fiume a lavare i panni, naturalmente era sola poiché non essendo normale, le altre donne lavavano la biancheria negli altri giorni sparlando di tutti e anche di lei. Il piano era che io le avrei dato discorso e lui avrebbe guardato, si era munito anche di un pezzetto di vetro, doveva farle un piccolo taglio per vedere se le usciva sangue.

Indossava un vestitino rosso a pois neri che le arrivava fino al ginocchio, dovendosi abbassare per lavare, si alzava parecchio. 

Mi misi accanto a lei e iniziai a parlare: ‹‹Senti è ora di finirla, voglio una risposta››. 

Lei lavava i panni e non si distrasse affatto, allora presi un sasso e lo gettai con forza davanti a lei, l’acqua le schizzò tutta addosso. ‹‹Mi hai sentito? Voglio una risposta!››.

Lei si fermò, alzò il capo e si girò verso di me dicendo: ‹‹spo…sar…mi››. 

In quell’attimo il dottore fece tutto, furono dei secondi e si ritrovò scaraventato nel fiume seguito quasi subito da me, ci lanciò come si lancia un sasso enorme, aveva una forza sovrumana e non era ancora tutto. Il futuro medico scappò via terrorizzato e anch’io cercai di farlo ma non potei poiché il piede mi faceva molto male, a quel punto Matilde issò una pesante lastra di pietra che non avrebbero potuto sollevare neanche 50 uomini messi insieme. Mi irrigidii e il sangue mi gelò nelle vene, quella lastra mi avrebbe schiacciato come una formica. 

Il pensiero andò veloce a Dio sperando che mi accogliesse in paradiso. ‹‹No Matilde no!›› 

‹‹No›› disse lei. 

‹‹No Matilde›› ripeté il signor Scaglione con un tono più pacato, allora lei lanciò quell’enorme masso nel fiume, l’onda d’urto provocata dal masso mi colpì in pieno viso scaraventandomi tre metri più in là. Il corso del fiume si fermò e l’acqua crebbe a vista d’occhio.

‹‹Riesci ad uscire da lì o hai bisogno d’aiuto?!›› chiese il signor Scaglione. 

‹‹Non c’è bisogno grazie›› risposi. 

Sparirono oltre la collina, io mi trascinai fuori dal fiume il cui livello aveva ormai superato quel masso creando una fossa e subito dopo una piccola cascata. 

Negli anni che seguirono tornai varie volte al fiume a fare il bagno dentro quella fossa, perfino con tua nonna quando eravamo ancora fidanzati.

‹‹Vai avanti con la storia che si fa interessante!››. 

Beh tornai a casa zoppicando e raccontai tutto ai miei genitori senza però scendere nei dettagli. Naturalmente mia madre restò a bocca aperta e non le raccontai tutto! Le dissi solo che rifeci la proposta a Matilde e che lei in risposta mi buttò nel fiume e che poi cercò di schiacciarmi. 

Ma appena uscii fuori con papà gli raccontai tutto, comprese le manovre mie e di Beniamino Eriberto.

Papà all’inizio dovette sedersi per un po’, poi aggiunse: ‹‹Andiamo da Beniamino››.

Lo trovammo accanto al pozzo che si lavava continuamente il viso, sembrava sbalordito!

Appena mi vide disse: ‹‹Che cosa può essere mai?›› 

‹‹Non lo so proprio!›› risposi io. 

‹‹Lei che cosa pensa?›› chiese a mio padre. 

‹‹Non so che dire! Forse è un diavolo, io ho paura per voi››. ‹‹Non è una donna e neanche un uomo! Cosa può essere mai? Maledizione io sto per diventare un dottore e so benissimo come è fatto un corpo umano. Ha bisogno di cibo, di acqua, deve espellere i liquidi in eccesso, sono tutte cose indispensabili per la sopravvivenza! A quella specie sotto forma umana mancano perfino gli organi sessuali, non è un essere umano capite? Non lo può essere!›› 

‹‹Cosa nonno? Non aveva gli organi sessuali?!›› 

‹‹Esatto non li aveva, oggi diremmo che era piuttosto un robot o un alieno!››

‹‹Sai nonno al giorno d’oggi siamo più moderni e molti credono agli extraterrestri, ma sappiamo anche che non esistono altre forme di vita.›› 

‹‹Comunque eravamo nel 1924 e non si avevano certo i mezzi per costruire un robot così perfetto! Non me lo spiegavo allora e neanche adesso.››

‹‹Ma come andò a finire?››

Passato lo sgomento non restava altro che andare da Scaglione e chiedere spiegazioni. Mio padre disse che era meglio ignorare la faccenda, che sicuramente c’era un diavolo in quella casa che si era impossessato di loro. Papà conosceva marito e moglie da quando erano bambini, erano cresciuti insieme. Erano molto buoni, religiosi, dei veri amici ma da tre anni a questa parte erano diventati schivi, proprio da quando era arrivato quel essere. Eriberto era d’accordo con papà, sarebbe stato meglio evitarli.

Io invece ero deciso: ‹‹O venite o ci vado da solo!›› 

Papà disse ad Eriberto: ‹‹Tu fai come vuoi non posso mandarlo solo, vado con lui.››

‹‹Allora vengo anch’io e che Dio ce la mandi buona!›› 

Arrivammo alla loro masseria in pochi minuti, sulle piante e sul terreno c’era una polvere come di tegole sbriciolate. Giunti nelle vicinanze della loro casa non si sentiva alcun rumore, c’era un silenzio spettrale. Papà chiamò a gran voce ma nessuno rispose. Allora ci facemmo coraggio ed entrammo nella casa, tutto era in ordine ma loro non c’erano più. Demmo l’allarme della loro scomparsa, tutto il paese li cercò per giorni ma non furono mai trovati. Nessuno riuscì mai a spiegare la loro scomparsa, nemmeno l’enorme masso nel fiume! 

‹‹Non diceste mai a nessuno quello che era accaduto?››

‹‹Chi ci avrebbe mai creduto? Meglio non farsi prendere per dei pazzi visionari!››

‹‹E poi come finì?›› ‹

‹Sai gli anni passano e la gente dimentica. Rimase un mistero…..››

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Buon Natale, Geraldo

Aveva gli occhi chiusi, aspettava… Di morire lo sentiva anche lui… Ormai erano giorni, ore…

Si sentì chiamare "Geraldo… Geraldo…" aprì piano gli occhi, lo vide. Non lo aspettava… eppure si… 

"Cosa sei venuto a fare" disse con un filo di voce… 

"Devo sapere!". 

"Hai pensato che sul letto di morte, dovendo dare l’anima a Dio mi sarei liberato la coscienza?"

"Vedo che comprendi… stronzo fino alla fine… da stronzo hai vissuto, da tale morirai"

"Pensala come vuoi" 

"Devo saperlo" 

"Al di la di tutto, delle maledicenze, delle dicerie, io non ti ho mai mentito, non l’ho avuta neanche quand’era mia… mi sono roso dentro, per cui non vi ho mai creduti, invece…". 

"Perché, ora mi credi?" 

"Si, abbiamo lottato, a volte contro noi stessi, ma non…" (un colpo di tosse non lo fa continuare) 

"Non ti sforzare Geraldo…" 

"perdonami, scusami!" 

"Dovresti scusarti con lei…" 

"Lo farò. Buon Natale Geraldo" 

"Grazie, se ci arrivo" 

"E’ solo domani…" (lui fece un gesto con la mano e uscì). 

Geraldo provò pena per quello che da giovane era stato il suo migliore amico. Richiuse gli occhi e ripensò alla sua vita, a quella seconda media quando vide lei per la prima volta (si sentì toccare) "Sei ancora qui?" 

"Si, mi sembra poco averti chiesto solo perdono… ho distrutto la tua vita e la sua, forse era destino… forse poteva essere diverso senza di me: l’avresti sposata, avresti avuto figli… la tua e la sua vita potevano essere diverse" 

"Non roderti dentro, è andata così!" 

"Mi hai odiato, vero?" 

"Certo… ma ti avevo perdonato anni fa" 

"Vorrei darti un bacio Geraldo!" 

"Un bacio… ma sei proprio scemo!" 

"Hai ragione… buon Natale anche a te amico. Dopotutto lo sei sempre stato, anzi eri il mio idolo. Come ci cambia la vita… purtroppo, il più delle volte in peggio. Ciao, vai…".

Geraldo richiude gli occhi. Ripensò a lei, aveva mangiato una merendina e lo aveva riempito di molliche, era una bambina piuttosto imbranata, notò subito i suoi occhi cerulei meravigliosi, litigarono per tutto l’anno, ma alla fine lei gli disse "Ti voglio per fidanzato… Ci stai?" (lo ricorda come se fosse ora) "
Ci rivediamo in terza media" 
"E no!" disse lei "Tu ti devi impegnare. C’è di mezzo l’estate e se tu non rimani impegnato con me non so come finirà"
"Ok, siamo fidanzati" 
"Tra fidanzati ci vuole un bacio" disse lei 
"Ok per il bacio". 

Impacciati come bambini, quali erano, si diedero il primo bacio per ritrovarla poi ad inizio scuola cambiata, cresciuta; aveva dei lunghi capelli. In quella terza media crebbe la loro complicità, il loro timido amore tra timidi baci… Ed è ora lei ad essere invadente, presente, assillante… a volte non la sopportava, parlava troppo, scombussolava la sua vita. Quella specie di amore da favola che vivevano, fatto di guardi, lievi carezze e baci di bambini… Un anno passa in fretta, tutti e due promossi agli esami. 

"Andremo al liceo" disse lei, lui accettò di buon grado. Al primo anno di liceo lei era già una bella ragazza, ben formata. Geraldo la guardò meglio, cominciò ad allungare un po’ le mani e a riempirle aveva due tette belle sode… finche lei lo bloccò con una proposta che lo lasciò di stucco: "Geraldo, se tu mi ami dobbiamo fare un patto!" 
"Che patto?" disse lui 
"Dovremmo entrambi arrivare vergini all’Altare" 
Geraldo prima restò muto, poi si fece una bella risata… poi disse "Sarà dura…!" 
"Lo so" disse lei "Anche per me. Ti amo e ti desidero" 
"Ok, ci proveremo". 

E ci riuscirono. 

Tra i due anni che seguirono tra di loro si intrufolò Gino. Era più ricco, ben vestito, osteggiava la sua posizione di figlio di un dottore. Geraldo era figlio di un muratore. Allora Geraldo pensò di aver trovato un vero amico, presente, costante e spendeva e spandeva. Addirittura, organizzò e pagò la festa dei suoi 18anni. Anche a lui piaceva, uscivano in tre e spesso, finche Geraldo capì: lei lentamente cambiava, mentiva, la sentiva lontana… finche quella sera (anche allora era sotto Natale) lei lo portò a casa sua, i suoi erano fuori per due giorni. Voleva, doveva fargli un regalo: la sua verginità! Geraldo non capì subito, lei insisteva, lo eccitò, lo voleva! Il perché Geraldo se lo chiese, lo chiese anche a lei "E il nostro patto?"
"Cose di ragazzini, adesso siamo un uomo ed una donna che si amano". 
Quel “si amano” non piacque a Geraldo "Sei sicura?" chiese 
"Certo, lo sai!" 
"Credo di no!".
Lei scoppiò in lacrime "Sono confusa, credo di amarlo, ma amo ancora anche te!" 
"Lui di più vero?" 
"Non lo so maledizione, non lo so! Ma una cosa la so: voglio, devo essere tua!" 
"No! Non così porco diavolo, non sei più mia da tempo lo sentivo, facevo finta di non saperlo" 
"Prendimi Geraldo, ne hai il diritto!" 
Fu una doccia fredda per lui, sbattè la porta e andò via in lacrime… 

Diciassette anni dopo la rivede, ormai donna, madre… Ricorda quella domenica: lei era in prima fila, bella come sempre la riconobbe subito, lei no! 
Finita la messa lei avanzò verso di lui "Padre, mi scusi, volevo presentarmi! Sa, arrivo ora nella sua parrocchia…" 
non poté continuare, lo riconobbe subito, quasi svenne. 
"Dimmi figliola, sono padre Geraldo" 
"Ma tu sei, mi riconosci?" 
"subito ti ho riconosciuta e finire la messa è stata dura" 
Si abbracciarono forte, si raccontarono le loro vite, lei ormai separata con un ragazzo di 13anni, trasferita lì alle poste… separata da 4anni, il figlio era con lei, il suo principe azzurro si era tramutato in diavolo.

Già da 7anni veniva a trovarla per le feste lei e il suo bambino, finche trovò anche lui a cena da lei. Come il lupo che ha mala coscienza ciò che fa pensa… Pensò… Insinuò… Calunniò… Ma non solo lui, molti parrocchiani lo credettero… Allusioni, discorsi di piazza e anche di posta. La sua direttrice chiese: è il mio confessore e un amico… non ci credettero, ma il loro legame era forte, più forte delle maledicenze. Per una lettera anonima padre Geraldo dovette andare dal vescovo e chiarire, spiegare… Almeno lui gli credette e non lo trasferì! 

Adesso era lì, stava andando via serenamente. La mattina dopo una mano amica lo accarezzò tra i capelli… "Padre Geraldo come stai?" 
Aprì piano gli occhi, era lei. "Bene, sto bene…" 
"Buon Natale" 
"Grazie, anche a te" richiuse gli occhi per non riaprirli più.